L'imputato è stato inabilitato all’esercizio di imprese commerciali e dagli incarichi direttivi in azienda per 10 anni e interdetto dai pubblici uffici per altri 5
Cinque anni e due mesi di carcere e 400 euro di multa. È la condanna inflitta oggi dal Tribunale di Milano a Giuseppe Biesuz imputato per la bancarotta di Urban Screen e per truffa e falso nei confronti di Ferrovie Nord Milano e Trenord, ora parti civili al processo e alle quali dovrà versare una provvisionale da 20 mila euro ciascuna. Biesuz, che è stato ad di Trenord, è stato inabilitato all’esercizio di imprese commerciali e dagli incarichi direttivi in azienda per 10 anni e interdetto dai pubblici uffici per 5. Subito dopo la lettura del dispositivo da parte del giudice Ilio Pacini Manucci, presidente della prima sezione penale del Tribunale, Biesuz in aula è sbottato: “Peggio di così….”.
I giudici, con la condanna a 5 anni e 2 mesi, hanno in sostanza accolto la richiesta del pm Sergio Spadaro. L’ex ad di Trenord, che è stato assolto per alcuni episodi di bancarotta, dovrà anche risarcire in altra sede le parti civili e cioè il fallimento Urban Screen, Ferrovie Nord Milano e la stessa Trenord, ai quali sono state riconosciute le provvisionali (immediatamente esecutive) al primo di 50mila euro e alle altre due di 20 mila euro ciascuna. Biesuz, che finì anche agli arresti domiciliari nel dicembre del 2012, è accusato di aver distratto circa 280 mila euro dalle casse di Urban Screen, la società che gestiva la cartellonistica pubblicitaria di cui è stato amministratore delegato dall’estate 2007 a quella successiva, e che è stata dichiarata fallita il 19 maggio 2011.
Secondo il capo di imputazione una parte consistente dei fondi sarebbe stata ‘stornata’ a favore di Pagaia, la società intestata alla moglie di Biesuz, mentre altro denaro sarebbe servito, per esempio per il noleggio di auto usata per “fini personali e extrasociali”. Inoltre, in occasione della sua assunzione ai vertici dell’azienda ferroviaria avrebbe dichiarato “falsamente” di essere “in possesso dei requisiti di onorabilità” previsti dalla legge, procurandosi così “l’ingiusto profitto relativo agli emolumenti corrisposti”.