Adha(o Ddai), Bes, Df, Dsa, Eh, Glh, Gli, Glic, Glip, Glir, Gom, Pai, Pdf, Pdp, Pei, Pis. No, non sono tornati i futuristi con le loro parole in libertà, sono solo alcuni degli acronimi dell’inclusione scolastica.
Fare esperienza di sostegno didattico/educativo nella scuola superiore significa imbattersi in questa criptica drammaturgia che va interpretata alla luce (o al buio) di definizioni che pretendono di definire vissuti densi, di regolamentare azioni educative di per sé complesse.
E invece la riuscita di un percorso educativo trae spesso forza nella liberazione da concetti definitori, dall’invenzione di strategie d’apprendimento incarnate nella concreta esperienza del singolo e, per quel che è possibile, calate nei propri contesti di riferimento. Vive insomma della relazione affettiva, l’unica capace di dispiegare in modo tangibile e proficuo la dimensione cognitiva.
Ma la scuola ha tendenzialmente voluto evacuare l’invenzione educativa e il buon senso e spesso si rinserra dietro a terminologie professionalizzanti, con continui aggiornamenti bla bla parcelizzanti che delegano, in ultima analisi, la guida e l’indirizzo dell’agire dell’insegnante di sostegno allo psicologo, figura ormai imperante che scandisce con l’autorevolezza di un guru una complessità d’azione, monitorandola a distanza senza frequentarla.
I gruppi di lavoro ne sono un esempio: la/lo psicologo impone facilmente il suo linguaggio, ricalca noiosamente modelli epistemologici in un’ossessiva virtualizzazione psicopatologica dell’esperienza umana, delle relazioni, codificando in senso clinico stranezze e attitudini necessarie che fanno di ciascuno di noi un essere diverso da un altro.
Ci risiamo: la sostanza delle cose si svuota, le parole si slegano dalle reali circostanze, gli aspetti sani e vitali spariscono risucchiati dalle parole della “disturbatologia”, parole talmente precise che non ne imbroccano una.
Già, perché l’identificazione di una persona nel suo complesso e molteplice divenire non è minimamente sostenibile dall’ottusa definizione: “deficit da disturbo dell’attenzione e dell’iperattività” o di “disturbo specifico dell’apprendimento”, che vogliono dire tutto e niente.
E così spesso si spediscono dagli specialisti soggetti magari irrequieti (vivaci, si diceva un tempo) ma sani a cui, nei casi peggiori, la farmacopea metterà proficuamente le mani addosso.
E allora fare percorsi per “obiettivi minimi” o “differenziati” è diventato un puro atto formale: se il ragazzo non capisce, se ha un casino in famiglia è meglio mandarlo subito dallo psicologo e fargli fare subito qualche disegnino da interpretarsi con categorie che impongono un reale sostanzialmente inafferrabile nel suo divenire. Così lo specialista indirizzerà in modo scientifico l’agire di insegnanti ed educatori arresi e dimentichi del loro potenziale, sempre più incapaci di produrre parole che contrastino la deriva auto-referenziale dello psicologismo.