Il documentario racconta Mohamed Husen, da soldato-bambino ad attore cinematografico nella Germania degli anni 30. Fu poi rinchiuso nel campo di concentramento di Sachsenhausen dove morì il 24 novembre 1944
Un attore di colore nel cinema nazista. Il documentario appena uscito, Il viaggio di Majub di Eva Knopf, racconta la straordinaria vita di Mohamed Husen, da soldato-bambino ad attore cinematografico nella Germania degli anni 30. Non ha mai avuto ruoli da protagonista ma era molto apprezzato dai registi. E poi – come acutamente commenta la cineasta Eva Knopf – “Ci sono molti più sudditi che re; in un film in genere ci sono più comparse che attori di primo piano”. Mohamed era nato a Dar es Salaam (attuale Tanzania) il 22 febbraio 1904, figlio di un ascaro della Schutztruppe tedesca. A 10 anni era stato arruolato nelle forze coloniali tedesche durante la prima guerra mondiale. Ferito gravemente aveva trascorso un po’ di tempo in un campo di prigionia a Nairobi.
Dopo la guerra si era imbarcato sulle navi mercantili e nel 1929, di passaggio in Germania, aveva chiesto di essere riconosciuto come ascaro e naturalizzato tedesco con il nome di Mohamed Husen. Aveva trovato lavoro come cameriere e come insegnante di lingua Swahili a Berlino. Ma la sua popolarità la deve al cinema. All’epoca a Berlino e Amburgo le persone di colore erano abbastanza numerose e molte trovavano lavoro nel mondo dello spettacolo in un momento in cui Josephine Baker era all’apice della popolarità anche in Germania. Mohamed apparve in numerosi film e nel 1932 sposò la cittadina tedesca Maria Schwadner dalla quale ebbe tre figli. Per Mohamed e altri tedeschi nati in Africa, la vita sul set era molto migliore di quella di tutti i giorni. L’ambiente del cinema era una sorta di zona di sicurezza, una realtà parallela dove la fantasia permetteva di dimenticare le durezze della vita reale.
Negli studi cinematografici, come ricorda Dorothea Diek, erano tutti amici, non si parlava di politica, non c’erano nazisti e gli attori africani erano accettati senza problemi. Ma il quarto d’ora di popolarità e di tranquillità passò in fretta. Già nel 1933 era stata tolta a Mohamed e alla sua famiglia la cittadinanza tedesca e nel 1935 perse il lavoro da cameriere perché i colleghi bianchi dissero alle autorità che non volevano lavorare con lui. Husen non si diede per vinto e, allo scoppio della seconda guerra mondiale, chiese di essere arruolato come volontario. La sua domanda fu respinta.
Per qualche tempo tirò avanti con le poche scritture che gli riuscì di trovare. La fortuna gli voltò definitivamente le spalle nel 1941 sul set del suo ultimo film, la storia dell’esploratore tedesco Carl Peters con la regia di Herbert Selpin. Mohamed interpretava il ruolo del fedele servitore di Peters, tristemente famoso per aver fatto uccidere senza pietà la sua amante nera perché aveva una relazione con il suo servitore. Nel settembre del 1941 fu accusato – pare da alcuni colleghi – di aver avuto sul set una storia con una attrice ariana da cui aveva avuto un figlio. Nessuno ebbe pietà di lui. Sua moglie fu costretta a chiedere il divorzio e Mohamed fu rinchiuso, senza processo, nel campo di concentramento di Sachsenhausen dove morì il 24 novembre 1944. È sepolto nel cimitero delle “Vittime della guerra e della violenza” a Berlino-Reinickendorf. Il suo figlio maggiore Bodo morì sotto i bombardamenti mentre si ignora il destino degli altri figli e di sua moglie. Il film di Eva Knopf si attiene in modo molto asciutto ai fatti. Altri registi avrebbero potuto fare di lui un eroe, un pioniere, il simbolo dell’ingratitudine della Germania nei confronti degli africani che l’avevano servita durante l’avventura coloniale.
“Non so proprio che giudizio dare di lui – spiega la cineasta – non era quello che i nazisti volevano che fosse, un vero ascaro, ma non era nemmeno quello che noi avremmo voluto che fosse: un combattente per la libertà o un antifascista”. In realtà – se lo ha fatto per convinzione politica o per opportunismo non è dato sapere – verso la metà degli anni 30 in divisa militare partecipava ai raduni nazisti urlando slogan del tipo “la Germania ha bisogno delle colonie in Africa”. Come molti immigranti provenienti dalle ex colonie, Mohamed era un fantasma e il poco che sappiamo di lui non ha alcunché di eroico. Resta la figura di un giovane di colore che per qualche tempo diventò attore nel momento più buio e razzista della storia della Germania, e poi fu travolto dagli eventi.
Dal Fatto Quotidiano del 16 novembre 2014
Foto dal documentario Il viaggio di Majub di Eva Knopf