Sono gli uomini che avrebbero fornito parte del tritolo per la strage di Capaci, l’Attentatuni in cui morirono il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta. Ventidue anni dopo quel tragico 23 maggio la lista dei condannati per la strage di Capaci si allunga: il giudice per l’udienza preliminare di Caltanissetta Davide Salvucci ha condannato all’ergastolo i boss Giuseppe Barranca e Cristofaro “Fifetto” Cannella, mentre di 30 anni di carcere è la pena per Cosimo D’Amato: tutti gli imputati sono stati processati col rito abbreviato. I tre uomini erano stati accusati da Gaspare Spatuzza (per lui 12 anni grazie all’attenuante speciale per i collaboratori di giustizia), che ha raccontato come avessero partecipato alla preparazione della strage contro Falcone. “Un attentato terroristico mafioso” lo definì il boss di Brancaccio, oggi collaboratore di giustizia, che con le sue dichiarazioni ha riscritto le fasi operative della strage di Capaci e di via d’Amelio. C’era infatti una parte inedita nella preparazione della strage che uccise Falcone: un racconto che è arrivato a vent’anni di distanza dall’eccidio e che ha coinvolto personaggi fino a quel momento considerati estranei all’eccidio. Una ricostruzione, quella di Spatuzza, che ha retto la prova del giudizio in primo grado. L’asfalto di Capaci, infatti, non era imbottito soltanto dal tritolo procurato da Giovanni Brusca: sotto l’autostrada che collega Palermo con l’aeroporto, c’era anche un altro tipo di esplosivo, proveniente dalle bombe inesplose della seconda guerra mondiale. Che dai fondali di Palermo erano finiti nelle disponibilità dei boss di Brancaccio, e poi sotto la lingua d’asfalto all’altezza dello svincolo di Capaci.
Un mese prima della strage, fu Fifetto Cannella a dare l’ordine a Spatuzza di procurargli una macchina voluminosa. “Con quell’automobile – dice Spatuzza – ci recammo a Porticello dove trovammo un certo Cosimo di circa trant’anni ed assieme a lui andammo su un peschereccio attraccato al molo da dove recuperammo dei cilindri dalle dimensioni di 50 centimetri per un metro legati con delle funi sulle paratie della barca. Successivamente constatai che al loro interno vi erano delle bombe“. Quell’uomo che consegnò ai due boss l’esplosivo altri non è che Cosimo D’Amato, imparentato con Cannella, rimasto nell’ombra per vent’anni e finito al centro delle indagini della procura nissena soltanto nel 2011. D’Amato di professione fa il pescatore, e ogni tanto tira su dai fondali del golfo palermitano alcuni ordigni inesplosi risalenti alla seconda guerra mondiale, che dagli anni ’40 giacevano in profondità. Da quelle bombe, il pescatore tira fuori l’esplosivo, per poi cederlo a Spatuzza e Cannella: i due boss di Brancaccio hanno l’ordine di procurare altro tritolo, oltre a quello reperito nelle cave intorno a San Giuseppe Jato da Brusca. Le bombe pescate da D’Amato vanno però lavorate, una fase che il pentito di Brancaccio definisce negli interrogatori come la “rimacinatura”: a quel punto il tritolo trovato da D’Amato è pronto per finire nell’imbottitura esplosiva dell’asfalto di Capaci: il primo formale atto di guerra allo Stato da parte di Cosa Nostra.