La diatriba sull’art.18 dello Statuto dei Lavoratori, tra chi lo vorrebbe eliminare o modificare (come è nel caso del Jobs Act dopo le recenti modifiche) si trascina ormai da lungo tempo. In questa diatriba si osserva però, sia dal lato di chi lo difende che da quello di chi lo vuole eliminare, solo la sua azione di tutela contro i licenziamenti discriminatori. Il fatto è però che questa tutela è solo una piccola dell’effetto positivo che essa in realtà produce sulla società e sull’economia del Paese, quindi non basta sostituirla con regole contro le discriminazioni. L’art. 18 è molto di più.
La rigidità che produce sulla mobilità dei lavoratori non è necessariamente un fattore negativo. Lo è ovviamente per l’impresa quando sopraggiunge una crisi a cui non può o non sa trovare rimedio. Ma è già stato ampiamente provato, anche a livello sindacale, che per questi casi, sia pure con i rituali momenti di tensione e scioperi delle maestranze, le soluzioni e gli aiuti alle imprese ci sono anche senza abolire o modificare l’art.18. Dare tutta la flessibilità all’impresa senza tener conto di ciò che accade di conseguenza è grave miopia politica, sociale ed economica.
Alina Dizik sulla rivista Bloomberg, in un articolo dal titolo “Surviving in the complex freelance economy” (Come sopravvivere nella complessa economia del lavoro libero) dice cose molto interessanti nell’ottica della flessibilità del lavoro. Il lavoratore freelance non diventa mai dipendente dell’azienda per cui lavora, è un lavoratore solitamente di livello professionale medio-alto e viene assunto per il tempo necessario all’impresa per coprire una posizione vacante (per esempio maternità, lunga malattia) o anche per coprire particolari “punte” della necessità di produzione. Ma, dice l’articolo, dato che questa forma di offerta di lavoro è molto conveniente per le aziende, il numero di questi lavoratori crescerà e si prevede che entro il 2020 arriverà negli Usa a coprire il 40% di tutta la forza lavoro, ovvero circa 60 milioni di persone. L’articolo mette in evidenza diversi elementi pro e contro per le aziende nel perseguire questo tipo di criterio occupazionale.
Non ci sono quindi solo vantaggi per le aziende, perché se è vero che in questo modo sfruttano a pieno la flessibilità del lavoro è vero anche che perdono molta affidabilità e tempo per istruire. Non tutti i lavori sono infatti semplice contabilità o fatturazione. Inoltre capita spesso che i lavoratori “freelance” siano accolti molto male dagli altri colleghi a lavoro fisso.
Comunque, scopo dell’articolo è fare propaganda in favore di agenzie che si organizzano un po’ come agenzie di collocamento (ad un costo però ovviamente maggiore per l’impresa).
L’articolo non dice però che il lavoro freelance è conveniente al lavoratore solo per i pochi casi di lavoratori molto specializzati e rari da trovare. In tutti gli altri casi sono dei pupazzi in balia delle pseudo-agenzie di collocamento e dei capricci dei manager delle imprese che vorrebbero usare i lavoratori come fossero pedine di una scacchiera.
L’ulteriore aspetto negativo di questa “flessibilità”, che in Italia qualcuno vorrebbe spacciare come soluzione a tutti i problemi aziendali, è la qualità della vita del lavoratore e la ricaduta negativa che si ha nei consumi interni del Paese quando il numero diventa importante.
Per quanto riguarda la qualità della vita, è evidente che un lavoratore costretto a cambiare frequentemente luogo di lavoro, procedure, colleghi, ecc. e lasciato inoltre spesso inattivo anche per periodi lunghi, la qualità della sua vita sarà a livelli infimi. Si avrà di conseguenza una ricaduta negativa anche sui consumi e sull’economia interna, perché lavoratori di questo tipo generalmente hanno poco o nullo credito. Infatti questa sembra essere negli Usa la principale ragione della mancata rivalutazione del settore immobiliare.
Dopo la crisi del 2008 la borsa è tornata ai massimi livelli, le banche e le imprese macinano utili che è una bellezza, l’unico settore che non è ancora riuscito a recuperare in pieno è quello immobiliare, e la ragione è quasi esclusivamente questa: la mancanza di una ripresa vera dell’occupazione stabile. Si tenga conto che nell’indice di disoccupazione sceso recentemente attorno al 5% c’è dentro molta di questa “occupazione”, ritenuta molto poco affidabile dalle banche, e quindi molto debole nel sostegno dell’economia. Ecco quindi che l’assenza di una componente occupazionale stabile diventa una iattura nell’economia interna perché riduce in modo determinante la fiducia dei consumatori, senza la quale anche la produzione industriale rallenta.
Non sono soltanto io a dirlo ovviamente, ci sono anche firme molto prestigiose. Il Nobel dell’economia Joseph Stiglitz per esempio nel suo articolo “La crisi dell’euro: cause e rimedi” (su MicroMega del 26/9 scorso) dice: “…ho già detto che maggiore flessibilità non aiuterà a risolvere i problemi attuali, anzi li aggraverà aumentando le disuguaglianze e deprimendo ulteriormente la domanda. La situazione italiana, ad esempio, vede già presente un elevato grado di flessibilità; aumentarla ancora indebolirebbe l’economia senza portare vantaggi.”
La flessibilità del lavoro (quindi l’abolizione dell’art.18) non è la soluzione ai problemi della crisi. Risolve (forse) qualche problema aziendale, ma quando viene allargato a tutto il mondo del lavoro crea problemi ancora più grandi sia alle imprese (che comunque in gran numero sono costrette, se possono, ad emigrare) sia, molto di più, ai lavoratori, cui viene a mancare una base solida per costruirsi una casa e una famiglia.
E’ vero che non è compito dell’impresa farsi carico dei problemi sociali, ma è assolutamente negativo vedere politici italiani che fanno della flessibilità una bandiera da conquistare (dire che l’art.18 è semplicemente un totem è una grossa sciocchezza).
La cosa vera da fare per uscire dalla crisi è esattamente quella opposta: garantire stabilità al lavoro per garantire ripresa dei consumi interni, qualità della vita ai giovani ed equilibrio sociale ed economico al Paese. Il problema della flessibilità della forza lavoro deve gravare sull’impresa solo minimamente (finché è sostenibile), poi diventa competenza dello Stato, cui spetta il compito di occuparsi e risolvere i problemi sociali. Lo Stato non può scaricare questi problemi né sulle imprese, né sui lavoratori.