L’Italia è un paese vulnerabile. Se ne sono accorti tutti nel nostro paese, ma non solo: secondo il Global Adaptation Index, redatto annualmente dall’Università di Notre Dame, nel 2013 il nostro paese si è classificato 30° a livello globale, ovvero 18° fra i paesi dell’Unione Europea ed ultimo fra quelli del G7.
La particolare graduatoria, che vede primeggiare i paesi nordici (primo posto per la Norvegia e a seguire Nuova Zelanda, Svezia, Finlandia e Danimarca) tiene in considerazione 45 indicatori per valutare vulnerabilità e prontezza di risposta agli effetti del cambiamento climatico di 192 paesi.
Dopo un periodo di crescita continua durato dagli anni ’90 al 2006, il nostro paese ha intrapreso progressivamente un trend negativo, che ci classifica oggi come il 23° paese meno vulnerabile ed il 37° più pronto ad intraprendere azioni di adattamento. Una vera e propria piaga quella della governance, che include i fattori istituzionali che accelerano l’applicazione di investimenti per l’adattamento e che ci pone fra l’Oman e la Namibia. Per non parlare del controllo della corruzione, che quando si parla di azioni finalizzate all’adattamento ci piazza al di sotto di Belize e Kiribati, sopra la Croazia.
Con le alluvioni di queste settimane, con le vittime, i danni e i problemi burocratici emersi, non c’è certamente da aspettarsi un miglioramento nel nostro indice per il 2014. Ma è possibile arrestare la tendenza?
Dei segnali di speranza ci sono. Dopo diversi mesi di lavoro e a circa un anno dalla presentazione, sta infatti per diventare realtà la Strategia Nazionale di Adattamento ai cambiamenti climatici, affidata al CMCC e che ha coinvolto esperti da diversi centri di ricerca ed istituzioni in tutte le aree interessate dagli effetti del cambiamento climatico: trasporti, foreste, energia, risorse idriche, ecosistemi, salute, agricoltura, terzo settore ecc.
La strategia dovrebbe fornire le linee guida per risolvere le più grandi criticità del territorio italiano, a partire dal dissesto idrogeologico, “riducendo al minimo i rischi derivanti dal cambiamento climatico per proteggere la salute, il benessere e i beni della popolazione”, migliorando inoltre “la capacità di adattamento dei sistemi naturali, sociali ed economici, nonché trarre vantaggio dalle eventuali opportunità che si potranno presentare dall’attuazione delle azioni di adattamento”. In questo modo, dovremmo finalmente allinearci ai diversi Stati Membri che hanno già fatto la propria parte, inserendoci anche noi nel contesto della Strategia di Adattamento dell’Unione Europea.
Affinché possa comportare provvedimenti concreti, sarà però necessario che la Strategia sia tradotta in un Piano Nazionale di Adattamento, che preveda l’allocazione di fondi adeguati alle ingenti misure da intraprendere. Diverse sono le frizioni in questo senso, con una porzione dell’opinione pubblica che vede ancora tali politiche come investimenti a perdere, secondo la vecchia credenza che gli investimenti per l’ambiente non siano compatibili con l’economia, specialmente in tempi di crisi: nulla di più sbagliato.
E’ infatti ormai noto come investire in misure di adattamento ai cambiamenti climatici sia di gran lunga non solo la scelta più giusta, ma anche quella più conveniente: per ogni euro investito in adattamento, se ne risparmiano fino a sette altrimenti necessari per riparare i danni. Gli eventi che si sono verificati e che sono tuttora in corso in diverse regioni hanno mostrato ancora una volta come l’Italia sia un paese a cui manchi la cultura della prevenzione, e di come sia ancora legata al detto “meglio un uovo oggi che una gallina domani” che andrebbe forse rivisitato, alla luce dei fatti, in “meglio una grande opera oggi che un paese sicuro domani”. Pur non volendone negare l’importanza, infatti, quei grandi cantieri oggi forse non rappresentano la reale priorità del paese, ben descritta invece dal pensiero di Salvatore Settis non più di un anno fa: “la messa in sicurezza del territorio è la vera, l’unica, grande opera di cui l’Italia avrebbe veramente bisogno”.
Della TAV, delle autostrade o dei terzi valichi si dice che possano creare posti di lavoro e rimettere in moto l’economia. Forse. Ma qualcuno ha pensato ai posti di lavoro e alle commesse che invece si perdono, per via delle alluvioni? Quanti cittadini hanno perso la propria casa, i propri beni? Quanti commercianti, artigiani, hanno perso il proprio esercizio o la propria bottega, e non potranno riaprire mai più? E, pur non volendo considerare i milioni di euro di danni che ogni volta vengono causati nell’evento specifico, quali aziende straniere verranno o torneranno più in Liguria, in Toscana o in Emilia Romagna – se non proprio in Italia – con i propri stabilimenti, con il rischio di perdere tutto un’altra volta? E, infine, con l’aumento della vulnerabilità (e dunque del rischio) come potrebbero non crescere anche i costi delle polizze assicurative?
Non considerare tali aspetti, nella scelta delle opere da realizzare, significa vedere soltanto una faccia della medaglia, e come spesso accade avere un quadro incompleto implica una visione errata della realtà. Questi fattori dovrebbero essere quantificati, tradotti in termini economici e di ricaduta occupazionale ed infine sommati ai benefit dei famosi green jobs, che per qualche ragione sembrano aver perso appeal ancor prima di essere realmente esistiti.
Occorre un nuovo paradigma, per mettere in chiaro una volta per tutte come le misure di adattamento, assieme a quelle di mitigazione delle emissioni, di sviluppo delle energie rinnovabili e di efficienza energetica, debbano essere alla base del rilancio economico dell’Italia.
Senza sé, senza ma e soprattutto senza più rinvii.