Mille delegati sindacali da tutto il nord Italia riuniti a Bologna per parlare di lavoro, diritti e riforme. E’ tornata in piazza Maggiore dopo il corteo del 16 ottobre, la Cgil emiliano romagnola che per il 20 novembre ha organizzato un incontro pubblico, con più di un migliaio di delegati provenienti da tutte le regioni del nord del Paese, dedicato al tema del Jobs act, alla crisi economica e ai diritti dei lavoratori. Un’iniziativa che arriva a due settimane dallo sciopero generale indetto per il 12 dicembre dal leader della Cgil Susanna Camusso, ma che la Camera del Lavoro emiliano romagnola non ha programmato solo per rilanciare i temi che saranno al centro dell’astensione dal lavoro di 8 ore annunciata da Roma. “Noi vorremmo incontrarli uno a uno – spiega Giordano Giovannini, segretario della Filctem Emilia Romagna, che comprende il settore tessile, quello delle manifatture, la chimica e l’energia – e confrontarci con chi concorre per la poltrona da presidente sul tema del lavoro. L’Italia non sta uscendo dalla crisi, come invece sostiene il governo, ma anzi siamo in piena recessione, e la Regione ha un ruolo chiave per gestire le crisi aziendali”.
Vertenze che non mancano nella rossa Emilia, terra di eccellenze manifatturiere ma anche di saracinesche abbassate ed esuberi su esuberi. “Specialmente se il Jobs Act dovesse effettivamente entrare in vigore – sottolinea Giovannini – un esempio? In Italia abbiamo 1 milione di lavoratori in cassa integrazione, 525 mila dei quali a zero ore. Se i fondi per la cassa in deroga venissero effettivamente tagliati, come minacciano da Roma, quei 525 mila cassaintegrati si trasformerebbero in 525 mila licenziati. 35 mila dei quali solo in Emilia Romagna. Come si può pensare di gestire una situazione simile?”.
Oggi le vertenze aperte sul territorio regionale sono decine, se non centinaia, fa i conti il sindacato. “E serve una classe politica che abbia intenzione di intervenire in maniera concreta per scongiurare licenziamenti e chiusure” prosegue il segretario della Filctem. Solo a guardare il distretto ceramico italiano, che per l’80% è formato da aziende che hanno sede in Emilia Romagna, l’elenco delle realtà produttive in difficoltà è lungo. C’è la Cooperativa Ceramica di Imola, ad esempio, che negli ultimi 6 anni ha “dismesso” 600 lavoratori, e che ha in esubero altri 400 operai, “passando dai contratti di solidarietà alla cassa integrazione e ora, forse, alla riduzione d’orario”, racconta Raffaella Bandini, rsu Cgil. O ancora, c’è l’ex Iris Ceramica, passata nelle mani della Graniti Fiandre dopo una vertenza difficilissima da 750 licenziamenti annunciati, solo per trovarsi con 140 lavoratori ancora a rischio, “specie se l’articolo 18 fosse abrogato”, sottolinea l’rsu Ciro Coppola. Ma c’è anche il settore tessile, la chimica, che guarda con occhi preoccupati il piano di privatizzazione di Eni che potrebbe togliere ai poli petrolchimici di Ravenna e Ferrara la materia prima, e poi la metalmeccanica, fino al mondo dell’edilizia, dominato dalle cooperative, per il quale Legacoop vorrebbe fosse dichiarato dal governo “lo stato di crisi”.
“Prima abbiamo manifestato, e ora presenteremo alla piazza le nostre proposte per uscire da questa recessione salvaguardando i diritti di chi lavora – spiega Giovannini – perché non è regalando il licenziamento facile all’imprenditoria, come vorrebbe fare il premier Matteo Renzi, che l’Italia si risolleverà”. Investire nel welfare, erogare risorse a chi crea occupazione e non delocalizza, puntare sulla formazione, sulla ricerca, sulla nascita di poli e distretti: queste sono alcune delle proposte iscritte nel Patto per il buon lavoro che la Cgil intende discutere con i candidati alla presidenza della Regione. “A parte che se un’azienda vuole licenziare, lo fa anche con l’articolo 18 – precisa Patrizia Fabbietti, rsu della Perla – ma se il Jobs Act fosse stato in vigore quando La Perla entrò in crisi non saremmo mai arrivati al piano di rilancio che ha portato alla riassunzione tutte e 600 le operaie in cassa integrazione, più altri 100 nuovi addetti che oggi lavorano in fabbrica. Perché gli ammortizzatori sociali hanno permesso al marchio di mantenere tutte quelle professionalità che rendono il prodotto italiano di qualità, ed è questo che ha indotto la nuova proprietà ad investire. E lo stesso è accaduto all’Omsa”.