Barbie, Topolino, transformer. Quasi tutti i giochi che regaleremo ai più piccoli sotto Natale sono stati prodotti in violazione dei diritti dei lavoratori. È questo ciò che afferma l’ultimo rapporto di China Labor Watch, ong con base a New York fondata nel 2000. Sessantasei pagine in cui si dimostra come le fabbriche di giocattoli continuano a violare i diritti dei lavoratori in Cina. Quattro le fabbriche supervisionate tra giugno e novembre 2014. Tra questi anche i fornitori delle multinazionali Mattel, Fisher-Price, Disney, Hasbro e Crayola. Gli si contestano violazioni dei diritti dei lavoratori come: discriminazione, requisizione dei documenti personali dei lavoratori, assenza di controlli medici, assenza di dispositivi di sicurezza, contratti incompleti o inesistenti e straordinari che superano le 120 ore mensili (il massimo stabilito dalla legge è 36 ore).
La comparazione con un rapporto del 2007 stilato dalla stessa ong dimostra che le condizioni dei lavoratori nell’industria dei giocattoli non sono migliorate negli ultimi sette anni contrariamente a quanto successo nel settore dell’elettronica di cui Foxconn è un esempio. Il compenso mensile base di un operaio delle fabbriche di giocattoli è di 174 euro. Se lavora dodici ore al giorno sei giorni a settimana può raggiungere i 390. Ma soprattutto sono in molti ad essere assunti come lavoratori temporanei. Questi ultimi non hanno un contratto e sono pagati poco più d un euro all’ora. Un operaio Foxconn oggi guadagna un minimo di 455 euro al mese.
Il punto segnalato da CLW è che le multinazionali dei giocattoli sono soggette a una competizione molto forte, ma nella maggior parte di esse non abbassano gli standard di qualità. Così subappaltano il lavoro ad aziende “fornitrici”. Queste ultime secondo il rapporto “non hanno altra scelta che accettare il prezzo di produzione imposto dalla multinazionale di turno. A volte, proprio per assicurarsi il lavoro, riducono ulteriormente il prezzo”. Il punto è che il costo del lavoro è interpretato come l’unica variabile flessibile del costo dell’oggetto finale. E i lavoratori, che non hanno voce in capitolo, si trovano di fronte ad un aut-aut: vendere il proprio lavoro a bassissimo costo o non lavorare.
Le aziende fornitrici, inoltre, sono anche un modo per le grandi aziende per non affrontare direttamente le responsabilità che hanno verso le condizioni dei lavoratori. È già successo infatti che CLW segnalasse violazioni dei diritti dei lavoratori in fabbriche che fornivano la Mattel, ma l’azienda ha risposto che considerava “il benessere delle persone che fanno i nostri prodotti molto seriamente” e ha iniziato un’azione legale sostenendo di compiere regolari controlli sui fornitori (che troppo spesso però non vengono condotti a sorpresa, sostiene CLW). Se messa alle strette, inoltre, l’azienda madre può sempre recidere il contratto con i propri fornitori.
Ma alcuni abusi sono anche difficili da dimostrare, per esempio quelli verbali. Un operaio di una delle quattro fabbriche prese in oggetto dal rapporto ha raccontato di aver chiesto un permesso al suo supervisore perché suo padre stava male. “Non te ne puoi andare nemmeno se ti muore un famigliare”, gli avrebbe risposto quest’ultimo. E nei picchi di stress e nell’alienazione della fabbriche sono spesso le parole a ferire più dei diritti negati. Nel 2010, una donna di 45 anni si è gettata dal tetto della fabbrica. Secondo i suoi colleghi questo gesto disperato era stato la reazione alla minaccia di licenziamento se non avesse lavorato più velocemente.
di Cecilia Attanasio Ghezzi