Da uomini è difficile entrare nelle possibilità della psicologia che ha accomunato queste tre donne, meglio dire femmine, affascinate dal buio, attratte indelebilmente dal nero, volontariamente affossate fino a rinnegare se stesse, i propri affetti, il proprio mondo, negando ogni virgola per assoggettarsi al capo, al maschio dominante. Femmine e non donne, certo, perché se Eva (Braun) e Magda (Goebbels) erano signorine a metà degli anni ’40, Blondi era il pastore tedesco, forse la più giustificabile. Asservite tutte e tre con un amore incondizionato, razionalmente inspiegabile se vediamo e prendiamo in considerazione l’oggetto del loro desiderio inarrivabile: il piccolo, gracile, mingherlino, per niente attraente Adolf, uomo di mezza età, dalla vocina flebile, senza particolari doti, fisiche od oratorie, fuscello risibile, tutt’altro rispetto all’incarnazione del mito della razza ariana, dai gladiatori romani, lontano anni luce dai (vociferati) appetiti sessuali di altri leader, Mussolini in testa. E sta qui il nodo inestricabile: il sesso. Il sesso mancato, il sesso mancante, il sesso richiesto ma sempre rifiutato, evaso, non corrisposto. Qui è l’uomo anaffettivo che si nega ma senza imbarazzi di sorta, ma con tutta la frustrazione che ne consegue.
Eva, Blondi e Magda, tre femmine descritte però dalla penna di Massimo Sgorbani e dalla regia di Renzo Martinelli, sotto la grande famiglia del milanese Teatro I, spazio da tenere sempre d’occhio, a dieci anni dalla sua fondazione. Occhi maschili (la drammaturga però è Francesca Garolla a riequilibrare la bilancia; a proposito interessante il suo “Non correre Amleto” presentato in forma embrionale alla vetrina lombarda “Next”) per arrivare in fondo al dilemma, a capire tutto l’appeal che un uomo senza appeal suscitava nelle donne, nella folla, negli eserciti. Sta qui l’inspiegabile. Il suo essere medio, se non mediocre, grigio, anonimo, un “ometto” di un metro e settanta poco più, lo ha portato ad essere capo e leader e guida spirituale prima che guerrigliera di un popolo. Un bambino picchiato dal padre, un pittore fallito. Vari rapporti militari raccontano e riportano riguardo al Grande Dittatore una presunta omosessualità latente, affetto da impotenza, addirittura che avesse soltanto un testicolo. Tutte le donne con le quali è entrato in contatto sono state portate al suicidio.
A
E’ la fine, siamo alla fine. Nel bunker si consuma una festa triste, di passaggio, senza astio verso il fuori, cercando arrovellamenti e discussioni cervellotiche, fredde congetture dialettiche, ragionamenti e digressioni bulimiche di parole. Una grande turbina sul fondo (tutt’altro rispetto al vento sotto la gonna di Marilyn) aziona la ventola che separa i due mondi, il fuori ed il dentro, gli Alleati ed il Fuhrer, il prima ed il dopo, tritura ciò che è stato come carta velina. Come in un club fumoso, lui (Milutin Dapcevic, dandy, compassato come Sandro Lombardi, bianchissimo, già cadaverico, come Gomez de La Famiglia Addams, con punte accese d’intensità pulsante), lei (Magda – Federica Fracassi tip tap e folgorante forza e impatto) sembrano discorrere sui massimi sistemi. E’ un girare attorno, come lo squalo con il surfista, è un mirare a vuoto nel Mare Magnum delle possibilità intellettive mentre sono e rimangono fisicamente bloccati, attendendo la fine, nel buco del ragno.