Non fu una semplice “consulenza” ma una vera e propria operazione di “guerra psicologica” quella di Steve Pieczenik, il funzionario Usa inviato in Italia nei giorni del rapimento Moro. Per la Procura generale di Roma la missione dello psichiatra statunitense, inviato in Italia dal Dipartimento di Stato Usa come consulente di Francesco Cossiga, aveva il preciso scopo di rendere la crisi italiana inoffensiva per la Nato. Seguendo una strategia puntuale: “Mettere le mani sui testi e sui nastri dell’interrogatorio di Moro – scrive il pg di Roma Luigi Ciampoli – eliminare Moro; costringere le Br al silenzio”. Il pg di Roma, che nei giorni scorsi ha chiesto di procedere contro Pieczenik per “concorso nell’omicidio di Aldo Moro” dopo aver avocato il procedimento al pm Luca Palamara, ha spiegato i contorni dell’operazione condotta dallo psichiatra Pieczenik, funzionario vicino al “falco” dell’amministrazione Usa Henry Kissinger.

L’interesse statunitense per il sequestro Moro – scrive il magistrato – arriva solo dopo la pubblicazione del comunicato n. 3 delle Br, il 29 marzo ’78, in cui i brigatisti promettono di rendere note le rivelazioni del prigioniero. E allegano una lettera riservata – resa però pubblica dalle Br – in cui Moro scrive al ministro dell’Interno Cossiga di rischiare di dover parlare “in maniera che potrebbe essere sgradevole o pericolosa”. È questo il momento di svolta del rapimento Moro: “E non fu un caso – spiega il pg – che subito dopo questa lettera, giungesse a Roma l’esperto del Dipartimento di Stato Steve Pieczenik. Il sequestro Moro era all’improvviso percepito come un pericolo serio dagli Usa”, che in una prima fase avevano rifiutato il loro aiuto al governo italiano, rifacendosi a un decreto presidenziale di Jimmy Carter che vietava ai servizi d’informazione statunitensi di collaborare con i Paesi stranieri a meno che non fossero in pericolo interessi vitali degli Usa.

I nastri spariti con l’interrogatorio di Moro. Oltre alla volontà di “eliminare Moro”, che Pieczenik aveva già rivelato in alcune interviste e nel libro di Emmanuel Amara del 2006 Abbiamo ucciso Aldo Moro, il procuratore generale attribuisce al funzionario americano altri due obiettivi precisi. Uno è quello di “mettere le mani sui testi e sui nastri dell’interrogatorio di Moro”: documenti che spariranno misteriosamente. Le Br sosterranno in seguito di aver distrutto gli originali (le lettere non recapitate, il “Memoriale”, le bobine degli interrogatori) o si rifiuteranno apertamente di rispondere sul punto, come nel caso di Mario Moretti davanti al giudice il 30 ottobre ’90. Il terzo obiettivo è “costringere al silenzio le Br”, raggiunto anche in questo caso sebbene tra i risultati fosse “il più difficile da conseguire”: a partire dal 15 aprile ’78 si smorzano improvvisamente le promesse di pubblicare le importanti rivelazioni emerse dall’interrogatorio del presidente della Dc. Niente di quanto eventualmente rivelato da Moro sui “veri e nascosti responsabili” delle stragi, sugli “intrighi di potere, le omertà” di cui parlano le Br nei loro comunicati verrà reso noto dai brigatisti né allora né mai. “Quanto al «come» questo obiettivo sia stato conseguito possono formularsi soltanto delle ipotesi – scrive il pg – che non trovano riscontri che le porti fuori dalle secche delle mere supposizioni di un ruolo della Nato, o di qualche non meglio precisato apparato di sicurezza, o della malavita o di tutti quanti insieme”.

Il colonnello Guglielmi e l’“uomo col cappotto cammello”. La Procura approfondisce anche la figura di due uomini legati ai servizi segreti che erano presenti la mattina del 16 marzo ’78 in via Fani. Il colonnello Camillo Guglielmi, capo dell’Ufficio sicurezza del Sismi, già vicino al generale del Sid (il Servizio informazioni difesa sciolto nel ’77) Gianadelio Maletti, l’alto ufficiale condannato per favoreggiamento dei neofascisti accusati della strage di Piazza Fontana. Guglielmi aveva partecipato nel ’72-’73, su richiesta di Maletti, ad alcuni addestramenti speciali nella base sarda di Capo Marrargiu sull’uso degli esplosivi e sulle tecniche di guerriglia e imboscata. La presenza del colonnello Guglielmi è da porsi “senz’altro – per il pg Ciampoli – in relazione coi tragici eventi che in quella via e in quel giorno si verificarono”. L’altro è l’“uomo dal cappotto di cammello” arrivato in via Fani subito dopo la sparatoria. Si scoprirà in seguito che si tratta di Bruno Barbaro, “cognato del colonnello Fernando Pastore Stocchi, dirigente della base di Capo Marrargiu e collaboratore del generale Vito Miceli”, che in via Mario Fani, secondo alcuni testimoni, “gestiva una base dei servizi segreti”.

“Non può farsi a meno di evidenziare la singolarità della contemporanea presenza in via Fani – sottolinea il procuratore generale – di due personaggi le cui storie personali conducono, direttamente o indirettamente, alla base di Capo Marrargiu”: la base di addestramento della struttura Stay-Behind “Gladio”. Anche se nel caso del sequestro Moro – nota il magistrato – Gladio rischia di diventare il “paravento” dietro cui si nasconderebbe altro: “Una serie di strutture segrete miliari e civili, infiltrate dagli ex salotini e legate a doppio filo ai servizi segreti dei Paesi occidentali (…) dal «Noto Servizio» al «Sid parallelo», dalla «Rosa dei Venti» ai «Nuclei di Difesa dello Stato», che agirono ben oltre i confini dell’anticomunismo democratico”. Quel che è certo è che quel giorno le Br non erano sole in via Fani.

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