Il 20 novembre è la data del Transgender Day of Remembrance, abbreviato in TDoR, ed è il giorno in cui si ricordano le persone trans vittime di violenza. L’evento nasce all’indomani dell’omicidio di Rita Hester, avvenuto nel 1998. L’anno successivo a San Francisco il triste episodio venne ricordato con una veglia a lume di candela, su iniziativa dell’attivista Gwendolyn Ann Smith. Da allora sempre più città in tutto il mondo celebrano questa giornata, per dire no agli omicidi e alle aggressioni motivate da transfobia.
“The Transgender Europe’s Trans murder monitoring project” si legge sul sito di Arcigay “ogni anno rileva i dati relativi agli omicidi di persone trans in tutto il mondo: secondo questo osservatorio sono 226 i nomi da aggiungere in questo 2014 alla lista delle vittime. La maglia nera appartiene al Brasile con 113 omicidi.” La situazione in Italia non è tra le migliori. Nel 2014 è stata assassinata una transessuale di trentuno anni, a Salerno. Dal 2008 ad oggi sono state uccise ventotto transessuali, “un dato secondo solo alla Turchia e a cui è necessario affiancare gli innumerevoli tentati omicidi e le quotidiane violenze.”
Va anche ricordato che i soprusi contro le persone trans non sono solo fisici. Partiamo dal dato linguistico: non accettare la condizione di chi non si riconosce nel suo sesso biologico – e che affronta un duro percorso di transizione per ritrovare la sua piena umanità – è la prima di tutte le violenze. Ricordo ancora quando ad una trasmissione, l’allora ministro Castelli, rivolgendosi a Vladimir Luxuria, ironizzava sulla sua identità sessuale e dichiarando di non sapere se darle del lei e del lui. “Datemi del loro” rispose, prontamente l’ex parlamentare di Rifondazione, con l’ironia di cui è capace. E ancora, basta fare un giro sulle testate dei maggiori quotidiani per vedere come il termine “trans” viene declinato sempre al maschile.
Sempre sul linguaggio, ancora, è consuetudine giornalistica – che diviene, di conseguenza, abitudine del parlato quotidiano – utilizzare la parola in questione come sinonimo di “prostituta”: si pensi alla frase “andare a trans”. Come se fosse scontato, o quasi obbligatorio, che una persona che decide di cambiare sesso debba necessariamente passare dal marciapiede. Ho conosciuto diverse persone che hanno avviato e completato il percorso di transizione: alcune di esse si prostituivano, altre facevano (e fanno) altre professioni. Tra queste, c’era pure un’insegnante. Segno evidente che vivere in una società che garantisce i diritti a prescindere da ciò che si è permette a chiunque di riuscire a realizzarsi a livello umano e professionale.
Infine, viviamo in un contesto sociale e culturale per cui essere trans è ritenuto, ancora oggi, una patologia. Una malattia mentale, per essere ancora più chiari. Ma la situazione italiana è talmente assurda per cui un disturbo dell’identità di genere – che dovrebbe essere un problema psichico – viene risolto con un intervento chirurgico. E anche questa è una forma di abuso. Forse dovremmo rivedere la norma che riassegna il sesso, il nome, il proprio io. Partendo dal presupposto che una buona legge ha come fine il benessere dei soggetti a cui è rivolta e non i pruriti moralistici di chi mai vi ricorrerebbe.
Per cui: usare le parole giuste, rivedere la legislazione in atto, capire che quando parliamo per categorie ingabbiamo, prima di ogni altra cosa, vite e sofferenze. E quelle vite e quelle sofferenze meriterebbero un rispetto maggiore. Possiamo cominciare, tutti e tutte, da qui.
Infine: sono previste oggi, in diverse città d’Italia, da Catania a Torino, passando per Roma, alcune iniziative in ricordo delle vittime di transfobia. Qui nella capitale si farà una fiaccolata di fronte al Pantheon. Sarebbe bello partecipare in massa. Per dire no alla violenza in una delle sue forme più odiose: quella che passa dalla discriminazione delle identità. Per essere migliori, non per altro.