Call center di nuovo sulle barricate. Venerdì 21 novembre è il giorno dello sciopero nazionale del settore, il secondo dopo quello di giugno, con i lavoratori in piazza a Roma per una “notte bianca”, ma anche a Palermo, dove oltre tremila persone rischiano il posto. A mobilitarsi, tuttavia, non sono solo i dipendenti, più di 80mila in tutta Italia, ma anche le aziende. La cui associazione di categoria, Assocontact, si è rivolta a governo e parlamento per manifestare le sue preoccupazioni relative al Jobs Act e segnalare il rischio della “morte” di una parte del settore. Una preoccupazione cui si associano anche i sindacati, benché da un diverso punto di vista.

Le società di call center, infatti, hanno scritto una lettera al ministro del Lavoro Giuliano Poletti e ai presidenti delle commissioni Lavoro di Camera e Senato, Cesare Damiano e Maurizio Sacconi. Tema della missiva, il futuro dei servizi in outbound, cioè vendite telefoniche e recupero crediti, dopo la riforma del lavoro. In particolare, Assocontact è preoccupata dall’ipotesi del superamento dei contratti a progetto in favore di un contratto di lavoro subordinato. “I servizi in outbound sono gestiti in modo autonomo dal collaboratore – sostiene Luca Scarabosio, vicepresidente dell’associazione – E le campagne di vendita non sono continuative. Per la loro stessa attività, questi servizi non sono configurabili come lavoro subordinato”. Da qui, il messaggio al governo: “Le attività di vendita hanno bisogno di mantenere una certa flessibilità. Altrimenti, una parte di questo settore è destinata a morire”. In particolare, il rischio sarebbe che i clienti dirottino le proprie commesse all’estero o su altri canali, come gli spot in televisione o su internet.

Anche i sindacati segnalano i pericoli insiti nel Jobs Act, seppure da una prospettiva decisamente diversa. “Sarei felicissimo del passaggio dai co.co.pro. a contratti di lavoro subordinato – spiega Michele Azzola, segretario generale Slc Cgil – Ma bisogna evitare che i committenti portino le attività all’estero”. Il lavoro subordinato, ragiona il sindacalista, avrebbe un costo maggiore del contratto a progetto e quindi le aziende sarebbero portate a fuggire dall’Italia. Come soluzione, Azzola chiede l’applicazione di una legge già esistente, il decreto Sviluppo del 2012. La norma, all’articolo 24bis, prevede che il cittadino sia informato sul Paese dove si trova l’operatore con cui sta parlando e che, se è l’utente a telefonare, abbia la possibilità di farsi trasferire la chiamata a un dipendente operativo sul territorio italiano. Ma secondo i sindacati, come anche denunciato in un esposto alla procura di Roma, questa legge è sistematicamente disattesa. Se fosse applicata, sostengono le organizzazioni dei lavoratori, questa misura sarebbe un forte disincentivo alla delocalizzazione.

Un altro rischio del Jobs Act, affermano i sindacati, è quello legato agli sgravi contributivi previsti, per i primi tre anni, per le aziende che assumono a tempo indeterminato. Anche in questo caso, le organizzazioni sindacali si dicono favorevoli all’intervento, ma a determinate condizioni. “Per evitare scenari drammatici, proponiamo una clausola di salvaguardia che vincoli il committente, in caso di cambio di appalto, a farsi carico dei dipendenti che hanno lavorato su quella commessa”, sostiene Michele Azzola. In questo modo, si eviterebbero i licenziamenti, ma anche gli espedienti messi in atto dai committenti per approfittare dei bonus contributivi.

Questi temi sono stati portati in piazza dai sindacati di categoria, Slc Cgil, Fistel Cisl e Uilcom Uil, che hanno scelto la strada dello sciopero unitario. Le manifestazioni in programma, tuttavia, vogliono chiedere soprattutto interventi urgenti per risolvere quelle crisi aziendali che si configurano come potenziali drammi sociali, sulla scia di un malessere che attraversa tutto il Paese e che, in questi giorni, trova in Palermo il suo epicentro. L’ultima doccia fredda, infatti, è arrivata infatti da Almaviva, società che nel capoluogo siciliano dà lavoro a 3.500 dipendenti a tempo indeterminato e 1.200 a progetto. L’azienda ha inviato un fax ai sindacati e al Comune di Palermo, dove ha annunciato oltre tremila esuberi per il primo semestre del 2015. A mettere in crisi la società, la scadenza della commessa Wind, prevista entro marzo, ma anche, come scrive l’azienda, “un mercato sempre più in contrazione, con costi sempre meno compatibili, il tutto aggravato da un ricorso alla delocalizzazione sia per le attività svolte con personale dipendente sia con personale a progetto”.

Altra vertenza aperta in città è quella di Accenture Outsourcing: British Telecom, unico committente della società, ha deciso di non rinnovare il contratto. Logica conseguenza, l’apertura di una procedura di licenziamento collettivo per i 262 lavoratori. Se non si troverà un accordo in extremis, a gennaio scatterà la mobilità. Nel frattempo, l’azienda ha cessato le attività e ha dispensato i dipendenti dal lavoro pur garantendo loro la retribuzione, invitandoli a “non accedere al luogo di lavoro”. Gli operatori, da parte loro, si preparano ad allestire picchetti all’esterno dell’azienda per impedire lo smantellamento della sede. A chiudere il cerchio della crisi dei call center palermitano, c’è la vertenza 4U Servizi. Dopo la perdita della commessa Sisal Match Point, spostata in Albania, i 390 dipendenti sono in cassa integrazione a rotazione fino a fine dicembre. Poi, bisognerà discutere un rinnovo dell’ammortizzatore sociale fino a maggio. Jobs Act permettendo.

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