In questi giorni non avevo nessuna voglia di tornare su questa vicenda, soprattutto prima dell’uscita delle motivazioni della sentenza, ma, dopo aver letto alcuni articoli, devo perdere un’altra mezza giornata su certi dettagli noiosi. Il dott. Tipaldo, nel suo primo post sul processo d’appello alla Commissione Grandi Rischi, afferma di aver avuto, “da scienziato sociale”, la certezza, precedente al verdetto, che la sentenza di primo grado non avrebbe retto all’appello, ascrivendo, in un post successivo, la debolezza del giudizio principalmente al nesso causale derivato dalla consulenza che ho svolto per il processo. Passi l’autoincensarsi con il titolo di “scienziato” (sarà una moda, ormai dottore=scienziato); ma, in questa sua agevole postvisione (altra moda), forse Tipaldo non si è accorto che, poiché la condanna è stata confermata per un imputato, il nesso causale in linea di principio resta valido, seppur ristretto a una sola persona.
Il punto però non è questo. Nella dissertazione che dedica al lavoro che ho svolto, il dottore reclama la necessità di un coefficiente probabilistico in assenza del quale la mia proposta teorica non avrebbe valore. Questa e altre inesattezze mi costringono a una replica (e a rientrare mediaticamente in una vicenda che, tra eccessi di polemiche e mistificazioni, sta diventando sempre meno decorosa). In tal senso devo specificare che nel lavoro che ho svolto non ho avuto nessuna intenzione e/o bisogno di dimostrare né che tutti i cittadini aquilani sono stati rassicurati dalla diagnosi di “non terremoto” prodotta dai saperi esperti, né di fornire una probabilità che indicasse con precisione quanti sarebbero stati rassicurati. Ho invece dimostrato, incrociando delle testimonianze con un apparato teorico, che è inverosimile che nessuno sia stato rassicurato. Pure assumendo che la legge di copertura non dovesse valere non solo “a tappeto” ma anche focalizzata in un indice probabilistico (dove questa non validità “meccanica” è una cosa abbastanza “naturale” per i fatti culturali), ciò non toglie che essa non possa avere valore in riferimento alle persone sentite al processo. Non a caso, in termini giuridici, la consulenza ha illustrato una legge di causalità psichica, che è un tipo di causalità ampiamente condivisa e patrimonio giuridico del diritto penale internazionale (si può leggere dalle motivazioni del giudice Marco Billi pp. 379-388, 674-691).
Quindi, in fondo cos’ho fatto? Ho scritto un testo per chiarire i dettagli di un (del tutto singolare) processo di persuasione collettiva (qualcosa molto simile a come funziona una campagna pubblicitaria, a volerla dire in soldoni, e tanto per non stare ad arronzare in poche righe pretenziose citazioni accademiche, in un contesto che accademico non è).
Poi, il dottore conclude affermando che nel caso aquilano sarebbe impossibile determinare una condotta positiva, ossia che non si possa arrivare a dimostrare se un messaggio diverso e/o l’assenza di comunicazione avrebbe indotto le vittime a stare fuori casa quella notte, verosimilmente salvandosi. Sarebbe impossibile? Ma quando mai? La condotta positiva è quella attuata da chi – non avendo ascoltato o dato peso alla diagnosi rassicurante degli esperti – è uscito da casa a seguito di due forti scosse di magnitudo 4 qualche ora prima di quella fatale; e quella sera lo fecero diversi cittadini (come pure la settimana precedente, dopo la prima scossa della sequenza in atto da mesi che arrivò una magnitudo 4, moltissimi aquilani uscirono dalle abitazioni e passarono la notte fuori). Nella consulenza c’è scritto, e c’è scritto in abbondanza.
Infine c’è un punto, un punto che non so se e quanto dal versante giuridico sia rilevante (e a dir il vero poco m’importa), ma riguarda una questione di epistemologia delle scienze umane. L’iter di legittimazione che Tipaldo prescrive al lavoro che ho svolto mi fa pensare a una grossolana confusione tra diversi piani metodologici (questo è un aspetto poco veniale per uno che, stando ai titoli che dichiara, come minimo fa l’accademico per davvero). Per farla breve mi pare che, probabilmente a partire da una sorta di esclusivismo disciplinare di orientamento sociometrico, si pretenda di voler (in)validare, attraverso un set generico costituito da vaghi richiami a metodi quantitativi, quella che invece è un’analisi prettamente qualitativa (faccio presente che la consulenza che ho svolto si basa su un approccio qualitativo di tipo etnoantropologico, orientato alla comprensione di una vicenda a partire dalla descrizione densa di un rapporto tra un insieme di vissuti e una cornice socio-culturale del tutto eccezionale quale quella del periodo d’incubazione della catastrofe aquilana; dove la comprensione antropologica di una situazione non si accontenta di qualche numeretto espresso in percentuale).
Anche qui, come ho accennato qualche rigo fa, ho l’impressione che, nella migliore delle ipotesi, ci si sia messi a criticare il mio lavoro senza neppure averlo letto (né la consulenza né il libro che ne ho tratto, dove ho dedicato molto spazio ad approfondimenti metodologici). Poco male: se così fosse non sarebbe il primo caso (e anche questa mi sembra una moda, una comoda moda “metodologica”).
Con questo ho finito la mia replica a quanto ho trovato di poco fondato in quelle critiche.
Semmai, leggendo il terzo post del dottore sulla vicenda del processo dell’Aquila – e ricordando che (dalla bozza del verbale della riunione agli atti del processo) anche tra gli esperti ora assolti fu esposta la tesi rassicurante dello “scarico di energia” senza che nessuno la rigettasse (anzi furono espresse frasi come “questa sequenza sismica non preannuncia niente” e “escluderei che lo sciame sismico sia preliminare di eventi”) – inviterei chi si è appassionato, fuori interessi corporativistici e da tifoserie ideologiche, alla vicenda del processo aquilano a domandarsi se la pseudoscienza sia una prerogativa solo di sedicenti scienziati fai-da-te, di esternazioni infelici di troppo eccentrici funzionari solitari o se possa rappresentare anche una cronica degenerazione politico-autoritaristica delle istituzioni ufficiali. Inutile ricordare che, trattandosi di dinamiche acclarate, questa è una domanda ormai quasi del tutto retorica negli ambiti della storia e della filosofia della scienza.
Al di là di quello che decideranno i giudici in cassazione, o di eventuali altri filoni processuali, credo che la vicenda dell’Aquila riguardi soprattutto questo, dove probabilmente a tremare non è stata tanto la Scienza (per dirla nel modo con cui Tipaldo titola i suoi interventi, seguitando ad alimentare il cliché mimetico del “processo alla Scienza”) quanto alcune poltrone (e chi la voluto usare la parola sacra “Scienza” per foderarle). Certe verità, le “verità storiche”, però richiedono tempo.
Ora, per dirla con Flaiano, è il tempo della comune pratica italiana di “correre in soccorso dei vincitori”; ma questo tempo finirà, e c’è una città che non dimentica (dove, se si vuole approdare a un piano di riconciliazione, mi pare che non si possa prescindere dal riconoscimento di certe responsabilità, almeno civili e culturali). Comunque in questa vicenda – se non ci si fa travolgere dallo tsunami di parole che ne sono scaturite più per far distrarre che per comprendere – gli elementi di verità maggiormente rilevanti emergono innanzitutto nell’incrocio tra la bozza del verbale della riunione e le intercettazioni a Bertolaso: ciascuno legga e ascolti per valutare da sé quanta e quale Scienza andò in scena quel giorno all’Aquila, con buona pace di Galileo.