Non ho alcuna pretesa di cominciare qui una analisi storico-letteraria di largo respiro. Non ne sarei in grado. Diciamo che parlo della mia esperienza, sia più lontana, sia di quella recente, anzi recentissima, cogliendo l’occasione per offrire anche qualche consiglio di lettura a chi avesse voglia di seguirmi.
Dovessi cominciare da più lontano, direi che uno dei contributi più validi per capire la natura profonda dello “spirito russo”, dei suoi pro e dei suoi contra, ce la fornì Napoleone, con la sua tremenda sconfitta. E’ vero: Napoleone non ha scritto niente sulla carta. Del suo tramonto, cominciato a Mosca, ha scritto il russo Lev Tolstoj, in “Guerra e Pace”. Ma, non ci fosse stato il francese Bonaparte, il russo Mikhail Illarionovic Kutuzov non avrebbe potuto rifulgere.
Ma, restando nel campo letterario più recente, c’è voluto il francese Emmanuel Carrère, attraverso l’acutissima biografia di Eduard Limonov, per raccontare ampi squarci rivelatori della fine dell’Unione Sovietica e del degrado successivo alla sua spietata colonizzazione da parte dell’Occidente vittorioso e segnatamente dell’America. Per quanto mi riguarda posso dire con sicurezza che, quando arrivai a Mosca, nel 1980, come corrispondente de L’Unità, un libro sopra tutti, indimenticabile, mi aiutò a incamminarmi in quel ginepraio: “Viaggio in Russia” del marchese De Custine. Lo lessi in accoppiata con “Gli antichi tempi di Poshekhonye” di Saltykov-Shedrin, che era russo. Ma mi ci volle la fredda, razionale analisi del francese per darmi la chiave.
Oggi, per una singolare coincidenza, m’imbatto – grazie ad Adelphi –in Prosper Mérimée e nel suo “I falsi Demetrii” (nella splendida traduzione di Tommaso Landolfi). Perché coincidenza? Perché l’editore non poteva prevedere, quando ideò questa edizione, la crisi ucraina. Ma il libro in questione sembra fatto apposta per rivelarcene numerosi risvolti, antefatti lontani. La lettura della vicenda dei “torbidi” che squassarono la Russia, tra il 1593 e il 1610, a partire dalla morte di Ivan IV, detto “Il Terribile”, è anch’essa una chiave di volta per capire le lontanissime radici della tragedia che si sta consumando oggi in quelle terre che oggi si chiamano Ucraina. Ventitrè anni dopo il crollo dell’Unione Sovietica, gli unici anni in cui quelle terre si sono trovate all’interno di uno stato indipendente.
Basterebbe la citazione che il francese Mériméee fa di un altro francese – il signore di Beauplan, che pubblicò a Rouen, nel 1660 una “Description d’Ukraine, qui sont plusieurs provinces du Royaume de Pologne….”. Il signore di Beauplan ne parla addirittura al plurale, raccontando delle tribù cosacche, e in particolare di quelle della regione di Zaporouys (oggi Zaporozhe), che divenne il luogo di rifugio dei cosacchi nel Boristene, dove fuggivano i contadini della servitù della gleba per sottrarsi alle sfrenate licenze della nobiltà polacca.
L’Ucraina, dunque, non c’era. La contesa fu tra polacchi e russi. Scrive, magistralmente, Mériméee “qua, dalla parte dei polacchi, il disordine istituito dalle leggi, radicato nella consuetudine, perpetuato da un costume guerriero; là [dalla parte dei russi, ndr] l’obbedienza e il rispetto dell’autorità divenuti un dovere religioso”. Qua “la licenza sfrenata degli antichi slavi”; là l’esperienza secolare subita sotto la dominazione tartara, dell’Orda d’Oro. Un servaggio che “dette ai principi russi tutti gl’istinti dello schiavo, l’arrendevolezza, l’astuzia, la pazienza che non si stanca”.
Non ci fosse stato questo, non Kutuzovskij ma il popolo russo, non avrebbe potuto sconfiggere Napoleone. E non Stalin ma il popolo russo, non avrebbe sconfitto Hitler e il nazismo. Ma vallo a spiegare, oggi, ai nani che guidano le orde occidentali.