Non esiste un dirigente, un burocrate, un passante e forse anche un telespettatore che possa negare l’evidente inefficienza, l’obsolescenza editoriale e tecnologica che rappresenta la Rai. Non esiste un osservatore che possa negare la persistenza di logiche politiche che soffocano qualsiasi esalazione di vitalità e di creatività provenga dai piani di Viale Mazzini o dagli studi di Viale Mazzini. E non esiste un contabile, non un politico, non un giornalista, che possa negare l’insipienza del prelievo da 150 milioni di euro ordinato da Matteo Renzi.
Oltre a imboccare con un pezzo di demagogia gli affamati populisti, oltre a dare l’esempio a un’azienda gonfia di sprechi come se la politica fosse vendetta, che senso ha questa mossa che ha provocato un ricorso, le plateali dimissioni di un consigliere (Luisa Todini), la barbara lotta tra il direttore generale Luigi Gubitosi e un intero Cda?Lotta che include gli indipendenti Benedetta Tobagi e Gherardo Colombo, esponenti della società civile e non pare di una falange di gufi. I 150 milioni di euro che Renzi ha succhiato al bilancio di Viale Mazzini non sono una soluzione, né per preparare la tv al futuro né per restituire un eventuale maltolto passato. Come spesso accade, è propaganda.
Perché a tanti farà piacere celebrare un presidente del Consiglio che dà una lezione agli screanzati che governano e lavorano in Rai. E così ci dimentichiamo che la Rai è una televisione pubblica, che è l’ultimo bastione dove rifugiarsi quando le tv private si concentrano troppo sul profitto, sul commerciale, com’è logico. Renzi si è pronunciato due volte sulla Rai: una per dire che non incontra il direttore generale (mentre volentieri accoglie i vertici di Sky a palazzo Chigi e ha splendidi rapporti con Mediaset), una per spacciare come inevitabile la norma sui 150 milioni di euro per coprire gli 80 euro in busta paga. A pensarci meglio, c’è una terza volta. Quando ha suggerito a Viale Mazzini di quotare e vendere ai privati un terzo di Rai-Way, la società che gestisce le torri.
Come aprire la cassaforte di famiglia e iniziare a cedere un brandello di patrimonio, che andato via non torna più. Questa è l’idea di Renzi nei confronti di un bene pubblico? Attenzione, una proprietà che amministra una ricchezza inestimabile: l’informazione, l’intrattenimento, le serie tv, non le estrazioni di petrolio e la corrente elettrica. In attesa di conoscere le intenzioni di Renzi, in Viale Mazzini gli attuali vertici si giocano il futuro, soprattutto le prossime poltrone. C’è chi s’è adeguato al renzismo, chi finge di esserne oppositore, chi pencola tra Silvio (Berlusconi) e Matteo. Chissà se con altrettanta foga il governo sceglierà il successore di Gubitosi, gli chiederà perché la raccolta pubblicitaria è un terzo rispetto a Mediaset nonostante gli ascolti reggano, perché ci sono canali che soffrono per carenza di investimenti e altri che non decollano dopo stanziamenti milionari? Chissà se il governo avrà un interesse, anche minimo, nel proteggere il servizio pubblico televisivo, non gli imboscati, i lavativi o i raccomandati. Ma l’importanza, incedibile, di dare a un paese una tv pubblica degna di questo nome e di questa altissima funzione.