Era partito come uno schiacciasassi, Matteo Renzi. Un programma da cento giorni con venature miracolistiche, l’Italia trasformata da carrozzone dilaniato da particolarismi e burocrazia a fuoriserie in esemplare unico. E soprattutto, il premier aveva realizzato un capolavoro di comunicazione politica, una sorta di programmazione neuro linguistica ad uso di elettori angosciati da una crisi che ormai è depressione conclamata. Il capo scout è un grande motivatore, sa toccare i tasti e le corde giuste. Come la furba polemica contro la “tecnocrazia” europea, che invece è pura politica degli interessi nazionali. Poi, lentamente ma inesorabilmente, la realtà ha ripreso il comando delle operazioni. Nessuno aveva realmente creduto alle mirabilie renziane dei primi cento giorni, motivo per cui al premier si è avallato senza troppo eccepire il programma dei mille giorni, che ha posto Renzi in una dimensione più riflessiva e “matura”, di grande destrutturatore e ristrutturatore di un paese in gravissimo affanno.
Renzi è passato senza subire danni da bellicosi proclami di sforamento della soglia del 3 per cento del deficit-Pil alla rivendicazione dell’inutilità di tali parametri, tuttavia rispettati per accreditarsi come paese serio. Poi è arrivata la bozza della legge di Stabilità, e la realtà ha sfondato la porta di Palazzo Chigi. Una manovra in origine solo blandamente espansiva ma ricca di criticità. Come la conferma del controverso bonus di 80 euro, erogato senza correzione per nucleo familiare, ignorando incapienti e pensionati. Una erogazione da 10 miliardi annui che sta impiccando il bilancio pubblico e che è una tax expenditure, spesa fiscale selettiva e non vera riduzione d’imposta che benefici erga omnes tutti i redditi uguali ed equivalenti, come invece avrebbe richiesto l’obiettivo di massimizzarne l’impatto sui consumi.
Poi è giunto il baccanale di retroattività fiscale, con la cancellazione dello sconto Irap introdotto solo pochi mesi fa e con l’assalto al risparmio, incluso quello previdenziale (con aliquote sul risultato dei fondi pensione passate dall’11,5 al 20% con decorrenza primo gennaio 2014) e di lungo periodo, come il Tfr, tassato di più sia in caso di approdo in busta paga che di permanenza in azienda. Anche qui, il Grande Programmatore neurolinguistico ed i suoi più stretti collaboratori hanno fatto il miracolo, riuscendo a etichettare il risparmio previdenziale come “rendita finanziaria”. Misure fiscali assurdamente retroattive, in spregio dei più elementari principi di uno stato di diritto, sono consolidata tradizione italiana, ma con questo governo hanno trovato rinnovato slancio. Malgrado la guerra di chiacchiere contro la Commissione Ue, il governo è stato costretto a una correzione dei saldi, che con tutta probabilità non sarà l’ultima, e la manovra è ora nella migliore delle ipotesi neutrale in termini di pressione fiscale, al netto delle distorsioni che causerà al risparmio di lungo periodo.
Perché Renzi si è dato questa priorità: consumate o verrete tassati. Il concetto di risparmio precauzionale in quello che è il paese più anziano del mondo (col Giappone) e in dissesto gli è alieno. C’è poi l’ampio capitolo dei numeri liberamente interpretati: Renzi ha deciso che, da febbraio, cioè da quando Enrico Letta è stato sfrattato, l’occupazione sta crescendo. E pazienza che sia poco più che rumore statistico e non vera tendenza: la determinante della svolta è stata identificata nel decreto Poletti. La stagnazione è problema dell’Eurozona? Vero, ma l’Italia è comunque deviante. Lo dicono i numeri, quelli veri, che Renzi ignora per sprigionare tutta la potenza della persuasione motivazionale. Il premier vuole la flessibilità, magari barattandola con zombie come la “riforma” delle Province, un improbabile Senato e una riforma del mercato del lavoro che in un contesto meno onirico sarebbe letta per quello che è: manutenzione al margine di un sistema in grave sofferenza.
Renzi strepita sui leggendari trecento miliardi che la Commissione Juncker deve tirar fuori ma non riesce a fare due conti sul reale impatto espansivo di quella cifra (ammesso che sia vera, e non il reimpacchettamento di fondi europei preesistenti), spalmata su un quinquennio ed una regione di mezzo miliardo di persone. E intanto, mentre impazza l’ennesima riedizione dello psicodramma sui quattro miliardi di tagli alle Regioni, dal 2016 arriva l’onda di clausole di salvaguardia che toccheranno nel 2018 i 30 miliardi di euro. Renzi nuovissimo ma anche fanfaniano, assicurano collaudati king maker della sinistra cosiddetta riformista, quella che massacra il piccolo risparmio ma lascia invariata la tassazione a chi possiede milioni in titoli di Stato.
Esistono alternative a questa confusa e declamatoria renzinomics? Non interne al Paese, a meno di credere che l’alternativa siano patrimoniali “a botta secca” o stampa di moneta per esaudire i desideri di grandi e piccini. Ma prima di scoprire che abbiamo gettato via almeno sei anni di salassi fiscali, vedrete che qualcuno riuscirà a intestarsi l’alito di crescita prodotto dal deprezzamento dell’euro causato invece dall’azione di Draghi e dalla divergenza delle politiche monetarie tra Stati Uniti ed Eurozona. Noi italiani siamo bravissimi a vedere cause dove ci sono solo correlazioni. I risultati di questo pensiero magico sono sotto i nostri occhi.
Da Il Fatto Quotidiano del 19 novembre 2014