Presentato il documentario su Marcella Di Folco, leader italiana del movimento LGBT, realizzato dal bolognese Simone Cangelosi. Tra i “fab 5” scelti da Paolo Virzì c'è "Let's go", storia di un fotografo napoletano di discreto successo nella “Milano da bere” che cade in disgrazia professionale ed umana col sopraggiungere della crisi
C’è poca magia nell’ultimo Woody Allen. Ma basta un dialogo geniale nel prefinale del film a capire che, tutto sommato, il vecchio Woody ha ancora qualcosa da raccontare. Questa l’impressione della visione di Magic in the Moonlight al 32 Torino Film Festival, che ha ospitato la pellicola in anteprima nazionale, precedendo l’uscita in sala prevista per il 4 dicembre. Ambientato sul finire anni ’20 nel sud della Francia, il film è interamente giocato sul tentativo di un arrogante e spocchioso illusionista inglese (Colin Firth, magnifico alterego delle nevrosi alleniane) che cerca di smascherare una giovane medium americana (Emma Stone) già idolatrata in mezz’ Europa per conclamati superpoteri, nell’al-di-qua e nell’Aldilà. Atmosfere tra il Charleston e l’adorato Jazz, paillettes e tazzine da tè in lussureggianti ville sulla Costa Azzurra, con escursione temporalesca nell’osservatorio che – aprendosi – dà il senso al “moonlight” del titolo. Il tutto per rimarcare la nota passione di Allen per quell’epoca, la Francia e lo humour inglese. Solo un dialogo, si diceva, si salva a pieni voti, ed è quello tra Firth e “zia Vanessa”, ovvero la magnifica attrice inglese Eileen Atkins: il meglio della lingua di Shakespeare, che affronta “la questione dell’Amore” con argute parafrasi e mirabile understatement. Inutile e dannoso alla visione degli spettatori sarebbe entrare nei dettagli del film, che presto sarà in metà sale del Belpaese, con la speranza di non poche proiezioni in lingua originale (la pellicola in versione doppiata perderebbe ancor più vivacità..).
Woody Allen archiviato, il Festival di Torino entra invece nel vivo delle sue proteiformi proposte. Nella scelta della giornata odierna eccone un paio, entrambe raccolte dal vitalissimo universo dei documentari -ritratti. Presentato in occasione del Transgender Day of Remembrance (TDoR), Una nobile rivoluzione offre finalmente l’occasione di riavvicinare una figura fondamentale e fondativa del mondo trans gender, ovvero quella di Marcella Di Folco, leader italiana del movimento LGBT fino alla sua scomparsa avvenuta nel settembre 2010. A realizzarlo è il bolognese Simone Cangelosi, divenuto suo amico e osservatore nel tempo dal primo – e ben documentato – incontro con Marcella nell’estate 1995 quando tenne uno dei suoi trascinanti comizi al MIT, Movimento Identità Transessuale. Marcella, nata Marcello ma operata a Casablanca nel 1980, ha contribuito in maniera sostanziale alla lotta (ancora in corso..) per i diritti degli omosessuali e trans in Italia, non per ultimo diventando la prima transessuale al mondo eletta a una carica pubblica, quando sempre nel ’95 divenne consigliere comunale a Bologna. Romana pariolina poi caduta in disgrazia con la famiglia, iniziò la carriera al Piper come Cerbero, per poi recitare per Fellini (conosciuto nel popolare locale di Roma) sia in Satyricon che in Amarcord. Trasferita definitivamente a Bologna a metà anni ’80, non rinunciò mai a una lotta che ispirò personalità oggi militanti quali Nichi Vendola e Vladimir Luxuria, che si considera “una sua creatura”. Nell’ispirato documentario di Cangelosi, ciò che colpisce è l’estrema vitalità di Marcella, figura istrionica e inconfondibile, un patrimonio umano prezioso a prescindere da ogni discorso di gender. Il film uscirà anche nelle sale grazie alla Fondazione Cineteca di Bologna.
Diverso ma egualmente profondo nel suo intento di raccontare ciò che siamo (diventati) oggi, è Let’s Go di Antonietta De Lillo, presentato oggi tra i “fab 5” scelti da Paolo Virzì. Si tratta di un toccante documentario realizzato a partire dall’incontro con Luca Musella, un fotografo napoletano di discreto successo nella “Milano da bere” che cade in disgrazia professionale ed umana col sopraggiungere della crisi. Musella è il protagonista assoluto di questo viaggio agli inferi della precarietà vigente, una metonimia dell’umanità depressa (in senso lato) che in qualche modo ci sfiora tutti. Importanti e di non banale impatto sono i testi scritti da lui che De Lillo “integra” nel tessuto narrativo e fotografico, facendo di Luca una voce simbolica di rara lucidità. Perché se è vero che siamo tutti coinvolti da una crisi che sembra infinita, è altrettanto vero che non tutti sappiamo leggere noi stessi e il contesto nuovo in cui siamo inseriti (Musella ha proprio cambiato il suo status sociale, dalla borghesia alla mensa dei poveri…) con la medesima e dovuta consapevolezza.