C’è una palude informativo-parlamentare che sappiamo muoversi su se stessa come un oliato carillon in cui basta salire una volta per diventare di ceramica. Contro questo minuetto per l’elettore è buono tutto purché si muova, purché gli tolga dalle mani il vertiginoso prurito che avverte scendendo in piazza. Anche perché qualche ceffone volerebbe anche tra nonni pensionati e nipoti disoccupati.
Erano buoni i cinque stelle, hanno avuto una possibilità, l’hanno sprecata, sono diventati di coccio. Hanno contribuito alla fine di un ciclo? Si tagliano ancora lo stipendio? Sono animati da buone intenzioni? Chi se ne frega, “mica sono la caritas”, non ce l’hanno fatta.
Proviamone un’altra. Torna in gioco il faccione di Salvini. Che è rassicurante, attenzione, da bamboccione di talento. Non è quello profetico di un vecchio ex comico esiliato dalla tv. E’ il volto di uno che ha preso il suo partito e ha fatto apparentemente sparire la vecchia classe dirigente, e va ancora nei talk a dirgliene quattro. “Ci sa fare”, va in parlamento e gliela fa pagare a questo Stato di palta. E in questo per l’elettorato è uguale all’altro Matteo. Baccellone, furbo, comunicatore e superficialmente rottamatore.
E’ in questo senso una presa di coscienza: serve una mediazione più dentro il meccanismo, prima della democrazia diretta della rete. Ma è soprattutto uno spaventapasseri che allontani i conti con sé stessi, che ci dica ancora che è solo colpa delle istituzioni, come se Lega e Pd non le avessimo mai votate. Tra la finta rivoluzione matteocratica e la fallita utopia grillina sta la prossima tappa di un doloroso cambiamento che non ha protagonisti in prima persona se non gli italiani stessi che scendono in piazza guardandosi in faccia. I loro passi nello spazio tra consenso e rappresentanza sono sempre più piccoli e veloci, come quando si sta per cadere.