La “donna picchiata” è la punta di un iceberg. Se associamo la violenza all’aggressione fisica trascuriamo l’essenza del problema. La violenza dell’uomo contro la donna inizia con delle molestie psicologiche. Un climax di micro-violenze. Prima sono piccole, quasi invisibili, a stento lei se ne accorge: uno sgarbo, una parolaccia tra mille “ti amo”, un’offesa per niente. Poi diventano frequenti. Lei le sente, a volte risponde, a volte no. Intanto si abitua. Lui continua. Finché la vessazione è quotidiana. “Non sei più capace di cucinare”. Squalificata. “Ti sei vista allo specchio? Hai la cellulite, fai schifo”. Derisa. “Io non ti ho detto niente, ti inventi tutto. Sei pazza“. Incolpata. “Se entro le sette non sei a casa, mi arrabbio”. Controllata. Poi i divieti: niente gonna, niente tacchi, no rossetto, zero amiche. Dalle umiliazioni l’uomo passa agli spintoni e alle botte. Alla fine lui e lei sono incappati in una spirale di violenza. L’uno dipendente dall’altra. Lui perché ha bisogno di esprimere il potere che non sente di avere dentro di sé, all’esterno; lei perché sottomessa e spogliata delle sue qualità, ha bisogno della scossa dell’uomo per sentirsi viva. È sbagliato dire che è la donna che se l’è cercata. Negli amori malati c’è un graduale adattamento alla violenza, frutto del plagio e della manipolazione lenta e logorante esercitati dal partner sulla compagna. Ecco perché lei non se ne va subito, a volte non se ne va mai (e si lascia uccidere), e il numero di denunce resta basso. In Italia, secondo un’indagine Istat del 2006, la prima sulla violenza sulle donne, su sei milioni e 743 mila donne che hanno subito almeno un episodio di maltrattamento (cioè il 31,9 per cento della popolazione femminile), solo il 7 per cento ha avuto il coraggio di denunciare l’aggressore, che nel 48 per cento dei casi è il marito, nel 12 per cento il convivente e nel 23 per cento l’ex. Perché è stata minacciata di morte o ha paura che lui faccia del male ai figli. Quando, insomma, la sua incolumità è in pericolo. E la sua personalità è già compromessa.

Ai centri antiviolenza arrivano donne che balbettano, che tremano, che fanno fatica a parlare, trascurate, svuotate, che non sanno più fare il loro lavoro, hanno perso un vocabolario, non sanno più di sapere quello che hanno studiato. Consumate. Alienate. Depresse. In pochi, spesso nessuno, le hanno credute. La madre, la polizia. Perché lui con gli altri è un fiore, con lei una bestia. Voltare pagina e nascere per la seconda volta, anzi la prima, è un’impresa che richiede tempo e tantissima pazienza. Come recuperare un tossico di eroina. Un percorso di cadute e risalite. Di crisi di astinenza dal male e voglia di liberarsene. Perché? Perché riconoscere la violenza subita è una presa di consapevolezza difficilissima. È l’ostacolo più grande da superare per emanciparsi. La donna all’inizio dice “sì, è vero mi ha fatto del male” ma lo perdona, lo giustifica, scambia il possesso per amore, l’autoritarismo per protezione. Ha i sentimenti verso di sé anestetizzati. Incapace di sentirsi. Di percepire il male contro di sé. C’è un involucro tra lei e il mondo, una forma di protezione innescata dal cervello per sopravvivere e non scomparire del tutto. Imparare a volersi bene è il secondo obiettivo.

Un altro errore è pensare che l’uomo violento sia un mostro. Non si nasce aggressivi. Lo si diventa. Così la donna: non esce dalla pancia di sua madre debole, ma arriva a esserlo. Le cause sono tante, complesse, ognuno ha la sua storia, il suo bagaglio di disagi. Il Fatto Quotidiano si è occupato a più riprese della violenza contro le donne. Le psicoterapeute intervistate ricordano che la donna è reduce da situazioni simili vissute in famiglia e tende a riprodurre lo stesso schema oppure è cresciuta con le svalutazioni di uno dei due genitori. Ma ci sono tanti altri motivi. In ballo, per entrambi, di sicuro c’è un buco di affetto da colmare. La violenza non è solo un problema femminile, anche maschile. Sono due destini molto fragili che si incastrano. Gli sportelli antiviolenza per curare gli uomini, per fortuna, si stanno diffondendo in tutto il Paese, da nord a sud.

L’educazione ai sentimenti è importante. A scuola non si fa. Bisognerebbe renderla obbligatoria. “La violenza non si risolve con la prigione. Bisogna partire dai giovani, bisogna insegnare loro ad amare se stessi” ha detto Paola Lettis, vice presidente di Telefono Rosa, intervistata ieri sera da Rainews. Giusto qualche numero per non trascurare i danni che provoca l’ignoranza emotiva. Secondo i dati Istat, sono più di 6 milioni le donne vittime di violenza: una donna su tre ha subito maltrattamenti da un uomo. 179 le donne uccise da un uomo nel 2013 in Italia. 88 quelle ammazzate da gennaio di quest’anno. 1392 le chiamate fatte al Telefono rosa da gennaio al 14 novembre. Nella ricerca nazionale “Quanto costa il silenzio?”, di Intervita onlus, si stima che la violenza sulle donne costa ogni anno quasi 17 miliardi di euro, pari a tre manovre finanziarie. Si tratta di spese sanitarie, di ordine pubblico, giudiziarie, per consulenze psicologiche e farmaci.

Non lo dimentichiamo. Facciamo passaparola. Aiutiamo l’amica, la zia, la cugina, nostra madre ad aprire gli occhi. Oggi è la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Elina Chauvet, l’artista messicana che ha portato sulle piazze del mondo le scarpe rosse in ricordo di tutte le donne torturate, rapite, percosse a sangue, è di nuovo in Italia. A Cremona oggi incontrerà gli studenti delle scuole superiori e metterà in scena la sua installazione. Serve un cambiamento culturale. Un Governo che stanzia solo tre mila euro l’anno per i centri antiviolenza si deve vergognare. Nessuno, per nessuna ragione, può arrendersi alla lotta contro la violenza sulle donne.

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