A Gerusalemme la violenza negli ultimi due mesi sembra essere diventata abituale. L’attacco sferrato il 18 novembre a una sinagoga nel sobborgo ultra ortodosso di Har Nof (all’ingresso occidentale della città), durante la preghiera del mattino, ha segnato un punto di non ritorno.

Perché se è vero che come prima risposta il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha dato ordine all’esercito di demolire le case dei responsabili dell’attentato e di precedenti azioni terroristiche, è anche vero che la tragedia della sinagoga è stata celebrata a festa in molti quartieri di Gaza, Ramallah e della stessa Gerusalemme.

Proviamo a pensare a due terroristi palestinesi armati di asce, coltelli da macellaio e pistole prendere d’assalto un luogo sacro colpendo persone innocenti, immerse nella prima preghiera del giorno. E’ evidente che dietro a un attacco di tali dimensioni si cimenta un’ideologia perversa e distorta, che trasforma una religione da un modo di vita in uno strumento di morte.

Combattere l’indottrinamento all’odio è più difficile che combattere una vera guerra, soprattutto in Medio Oriente, dove la soluzione di due popoli e due Stati, per israeliani e palestinesi, continua ad avere un’accezione più distopica che desiderabile.

In questo scenario Netanyahu e Hamas continuano però ad essere due volti della stessa medaglia, insomma hanno responsabilità speculari in una lunghissima battaglia che molto spesso parte dalle scuole. Non è un caso che le mappe geografiche di ogni istituto scolastico israeliano non presentino la linea verde che divide Israele dalla Cisgiordania, da Gaza e dalle alture del Golan.

E non è un caso che anche Hamas da un anno a questa parte abbia cominciato a distribuire nuovi testi scolastici a Gaza, diversi da quelli usati dall’Autorità Palestinese in Cisgiordania, che non riconoscono l’esistenza di Israele e non menzionano nemmeno gli accordi di pace di Oslo firmati nei primi anni ’90.

Del resto, la formazione dei giovani è una delle priorità di chi intende preordinare il futuro, e un tale sistema di indottrinamento, fondato sull’approvazione dell’ignoranza come mezzo per delegittimare il nemico, è destinato a fabbricare generazioni ostili, pronte a soffiare con insistenza sul fuoco del conflitto.

Hamas oggi è tra le organizzazioni terroristiche più ricche al mondo. Secondo Forbes Israel ha a disposizione un volume di introiti pari a 1 miliardo di dollari l’anno, anche se la cifra è quasi sicuramente sovrastimata. In ogni caso, potrebbe contribuire direttamente al rilancio dell’economia nella Striscia, ma finora è riuscita solo a trasformare Gaza in una gigante base missilistica. La volontà di rialzarsi è solo dei palestinesi, non di chi li governa dal 2006.

Allo stesso tempo, gli israeliani continuano a credere di vivere nell’unica democrazia modello in Medio Oriente. Sbagliano. Perché Netanyahu questa democrazia l’ha demolita da un pezzo, così come la casa di Ziad Awad, accusato di aver ucciso un poliziotto due mesi fa senza lo stralcio di una prova, senza un processo e neppure un avvocato.

Questa è una democrazia? E’ una democrazia quella dove un colono di Yitzhar uccide una ragazza palestinese in un incidente d’auto e non viene neppure denunciato? O dove il sindaco di Ashkelon esclude gli arabi israeliani dagli impieghi di ristrutturazioni pubbliche come gli asili nido? Si può chiamare democrazia quella dove un capo del governo avanza una proposta di legge per far diventare Israele “lo stato-nazione del popolo ebraico” nonostante la popolazione territoriale sia composta per il 20 per cento da cittadini arabi, o dove la polizia nazionale effettua violenze e torture sistematiche nei confronti dei minori palestinesi detenuti?

Certo che no. Ed è il momento che gli israeliani reagiscano guardando anche in casa propria. Loro possono e devono compiere il primo passo sfiduciando Benjamin Netanyahu dalla poltrona di primo ministro, altrimenti presto il muro della vendetta diventerà insormontabile e migliaia di vite, ancora, si perderanno dietro la ricerca del consenso di Hamas, tra le tristi simpatie di una precisa parte della comunità internazionale.

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