Tre storie, tre sguardi femminili, tutti e tre vivaddio italiani, rendono forse meglio di ogni altro resoconto l’aria di libertà e di passione che si respira in questi giorni al Torino Film Festival. Da sempre questo Festival è infatti un luogo di ricerca sul cinema e anche sulla vita, nella convinzione che vita e cinema sono largamente sovrapponibili e impercettibilmente distanti, e lavorare di invenzione sull’uno vuol dire aprirsi alla comprensione dell’altra. Ognuno di questi tre film racconta da un’angolazione speciale l’eterna dialettica esistenziale tra passato e presente, che è poi forse il vero snodo essenziale del nostro essere.
La prima storia è quella che racconta Susanna Nicchiarelli, giovane cineasta romana, in Per tutta la vita, film prodotto da Raicinema (lo si può vedere in streaming durante i giorni del Festival su mymovies.it) e centrato su quella rivoluzione antropologica che fu la legge sul divorzio del 1970 con quello che ne seguì. Gli anni di riferimento sono i Sessanta-Settanta, cioè gli anni in cui ancora le ragazze si sposavano spesso per catturare il maschio che le avrebbe protette e soprattutto mantenute “per tutta la vita” (i Sessanta); e poi gli anni in cui il tappo finalmente saltò e una nuova libertà si affacciò a cambiare i connotati della società italiana (i Settanta). Vista dal film, quell’Italia abissalmente lontana – dalla quale riemergono i filmini super 8 del matrimonio di una coppia e le campagne elettorali del 1974 sul referendum sul divorzio, con i toni rabbiosamente accesi di Fanfani e quelli più pacati di Berlinguer – è intrecciata con l’Italia di oggi, nei tre aspetti che più sono toccati dalla fine di un rapporto amoroso: quello personale (che cosa resta di una ex coppia che si è lasciata?), quello biologico-evolutivo (l’uomo è “naturalmente” monogamo, come alcune specie animali e a differenza di altre? E se così fosse, perché sarebbe monogamo?), e quello legale, con l’avvocato che commenta l’assurdità di alcune norme che ancora resistevano nel Codice Civile fino alla riforma del 1975. Il film orchestra con delicatezza i diversi livelli che compongono questa sinfonia sulla fragilità degli affetti scavando nella memoria sociale di un paese attraverso le piccole vicende esemplari di coppie di coniugi ed ex coniugi senza abbandonarsi a nostalgie e rimpianti.
La seconda storia, anche qui un documentario, è invece quella proposta da Let’s go! di Antonietta De Lillo, cineasta eclettica e dotata di uno stile molto personale. Il titolo allude a quel bisogno di continuare il cammino che anima nonostante tutto il mondo della marginalità, al quale il film è dedicato. Così il ritratto di un “uomo di confine” – l’ex-fotografo Luca Musella, già ben installato nella professione e in una vita affluente (copertine dell’Espresso, matrimonio e figli ecc.) che a un certo momento abbandona quella vita per inseguire sogni che presto si sgretolano – si delinea sullo sfondo di un’inquietudine che anela alla libertà, ma che è segnata anche da un consapevole disincanto (“Sono un uomo in letargo, lontano da ogni idea di redenzione”). La De Lillo sovrappone il suo sguardo lucido e aperto a una continua ricerca anche stilistica (cfr. la scritta “Insofferenti all’ovvio” inquadrata di passata, che potrebbe fungere da emblema del film) alla visione altrettanto lucida del fotografo, che è ormai uno “che sa” e che può vedere in tutta la sua imponenza la solitudine che lo accompagna in questo viaggio dalla borghesia da cui proviene al sottoproletariato del suo presente: “Nessuno più ci dice ma che cazzo dici?, così tutto diventa verità”. E questa mancanza di binari necessari per guidare la vita di esseri tutto sommato deboli è però anche la porta per una vita in cui si crede di provare il sapore della libertà.
La terza storia, sicuramente la più sorprendente, è quella che racconta Eleonora Danco con N-capace. Qui viaggio, memoria e ricerca di se stessi si fondono in un percorso che fisicamente va da Terracina a Roma e temporalmente tocca l’infanzia e la vecchiaia. E’ un viaggio nei luoghi del passato della protagonista, che qui si chiama simbolicamente Anima in pena, ma le tappe del percorso e gli stessi personaggi che lo raccontano ambiscono a essere universali, secondo una chiave drammaturgica di provenienza teatrale. La Danco viene infatti dal teatro – il film è la sua opera prima – e del teatro ha mantenuto la ricerca di una composizione serrata ma molto libera, capace di affrontare in maniera vivace e fresca alcuni grandi temi della vita: l’infanzia e la morte, l’amore e il sesso, l’aldilà e il rapporto con i genitori. Sorta di psicanalisi della vita, vista anche nelle sue minime pieghe – dai ricordi dei professori di scuola a quelli dell’ansia della domenica con i desideri delle paste fino al ricordo del bagno al mare sotto l’occhio severo della madre – il film allinea una serie di personaggi intervistati in un clima a metà tra il documento e la fiaba. E questi personaggi, che sono vecchi o bambini, cioè esseri collocati ai bordi della vita adulta, sono a volte vere e proprie sorprese visive e intellettuali: la vecchia, vecchissima signora di campagna che chiama la mamma, il padre di Anima in pena che, affrontando la solitudine della vecchiaia, “galleggia” nella vita, attraversandola quasi in sospensione avvolto in una tuta da cosmonauta come la sua badante, il vecchio che nega con decisione l’esistenza di qualsiasi forma di aldilà, la stessa Anima in pena che attraversa paesaggi familiari ma trasfigurati in una chiave trasognata. E poi ci sono soluzioni comiche, soprattutto con i ragazzi della Roma marginale (“Nun me piace legge! Me se ‘ntrecciano gli occhi. O se studia o se lavora! D’a politica nun me frega gnente”, dice un ragazzo già avviato sulla strada del lavoro e dell’esclusione). Il film sa cogliere lo scatto/scarto tra vita e cinema con uno spirito grottesco che evoca Buñuel e, al tempo stesso, sa intercettare umori e spessori dell’Italia contemporanea con un acume che richiama sia pure alla lontana i Comizi d’amore pasoliniani. Certamente un candidato alla vittoria nel concorso principale del Festival.
Sono tasselli di un’Italia a suo modo diversamente esplosiva, quelli raccontati dai tre film, un’Italia massacrata dall’indifferenza e tuttavia ancora in grado di accumulare per vie misteriose un’energia tuttora implosa che forse da qualche parte uscirà fuori. O forse no, secondo l’inclinazione disillusa del paese. Il cinema sa essere la spia – forse più veritiera e profonda di tante analisi sociologiche – delle grandi pulsioni che si agitano nelle viscere del sociale. Se la politica sapesse guardare con occhi aperti a questi film…