Galeotti furono la privatizzazione e l’avvento dei derivati. Assieme hanno distrutto Crediop, banca creata nel 1919 dal ministro del Lavoro, Alberto Beneduce, per poi essere privatizzata nella grande stagione delle vendite degli anni ’90. Ceduta dallo Stato al San Paolo e passata poi nel ’99 alla banca pubblica franco-belga Dexia, Crediop è oggi in fase di smantellamento. Con buona pace dei Comuni che hanno sottoscritto derivati e che sperano ancora di poter ottenere dei risarcimenti, nonché dei risparmiatori che hanno in portafoglio circa 3 miliardi delle sue obbligazioni. Fallito a luglio l’ultimo tentativo di vendita ad una cordata cinese per mano di Mediobanca, Dexia Crediop, controllata da Dexia (70%) e da tre banche italiane – Popolare dell’Emilia Romagna, la Bpm e il Banco Popolare (con il 10% ciascuna) – è destinata a scomparire dalla scena economico-finanziaria passando alla storia come il gruppo che ha imbottito di derivati i conti degli enti locali italiani tradendo la missione iniziale di finanziamento delle infrastrutture pubbliche.
Il “peccato originale” dei prodotti tossici venduti alle amministrazioni locali arriva però solo sotto la regia francese. E’ infatti durante la gestione della casa madre Dexia, salvata qualche anno fa in extremis dal cordone pubblico stretto da Francia, Belgio e Lussemburgo, che Crediop inizia a vendere derivati agli enti locali. Un’attività che diventa rapidamente una parte importante del business dell’istituto. Salvo poi tradursi, con lo scoppio della bolla dei mutui subprime, in una delle peggiori grane nei conti della banca, che oggi è nel pieno degli scontri legali con Comuni, Province e Regioni. In Italia il caso più caldo del momento è quello di Prato. Il comune toscano ha in corso due diverse cause in cui sono in ballo 5 milioni di danni, la prospettiva di un aggravio di costi da circa 17 milioni sui conti dell’ente e parcelle stratosferiche per gli avvocati. Soprattutto quelli impegnati nella controversia londinese in cui Dexia Crediop ha citato il Comune per la sospensione “in autotutela” nel 2010 del pagamento delle rate previste nei derivati swap sottoscritti dall’ente fra il 2002 e il 2006. Per sostenere le proprie ragioni la banca guidata in Italia da Jean Le Naour, non ha esitato ad ingaggiare nomi importanti del foro come l’ex ministro della Giustizia Paola Severino e lo studio Allen & Overy, che per la parte amministrativa si affida al professor Giulio Napolitano, figlio del presidente della Repubblica. Con tanto di aggravio delle parcelle legali sui conti dell’istituto. “Gli accantonamenti per fondi rischi ed oneri – si legge nella semestrale del giugno scorso della banca – relativi a spese legali per procedimenti amministrativi e giudiziari in corso su posizioni in derivati stipulati con enti locali risultano superiori di un milione rispetto agli accantonamenti effettuati nel primo semestre 2013”.
La partita derivati del resto è molto delicata. Soprattutto a Prato: se vince il Comune, Dexia Crediop potrebbe dover pagare all’ente un corposo risarcimento creando un precedente. Se, invece, vincerà la banca, allora sarà l’ente a fallire con conseguente aggravio di tasche dei cittadini e rischio tagli per i dipendenti.“A Prato c’è una situazione particolare per cui la banca è stata sia consulente dell’ente che venditore dei prodotti che generano danno alle casse del Comune – precisa l’avvocato Manuele Ciappi, che sta seguendo il Comune di Prato nel giudizio penale italiano – Questa circostanza grave non si riscontra poi in altri luoghi. Non è detto quindi che una causa vinta a favore di un ente in un luogo possa automaticamente assicurare la vittoria anche in un altro tribunale. Non si può generalizzare perché ogni rapporto ha le sue peculiarità”. E in effetti, spulciando la semestrale di Dexia Crediop si leggee che la Regione Piemonte, che pure ha sospeso il pagamento di 52 milioni, non è riuscita a spuntarla in sede legale e dovrà ora pagare anche le spese degli avvocati oltre agli interessi di mora. O, ancora, che il Comune di Forlì si è arreso in corso d’opera decidendo di pagare, mentre Messina (2,7 milioni di pagamenti sospesi) e Ferrara (2,9 milioni) hanno deciso di andare fino in fondo.
Indipendentemente dall’esito delle controversie, però, il destino di Dexia Crediop è già segnato. Lo scorso 15 luglio, la Commissione europea ha “confermato la gestione in ammortamento degli attivi residuali senza nuova produzione di Dexia Crediop” come si legge nella semestrale a giugno 2014 chiusa in utile per 25 milioni. In pratica, nessun nuovo business, ma solo un lento e progressivo spegnimento dell’attività con la prospettiva di lasciare a casa i 177 dipendenti. Di questi 61 dovranno uscire a stretto giro dalla banca, ma la trattativa con il sindacato si è bruscamente interrotta aprendo la strada ai licenziamenti collettivi. La chiusura avverrà “nell’indifferenza collettiva”, come ha rilevato in un interrogazione parlamentare Titti Di Salvo lo scorso 31 ottobre facendo notare che l’operazione comporterà “la fine di una banca italiana con una assoluta specializzazione in materia di investimenti”. La questione del resto era già stata sollevata in Parlamento un anno fa. Senza peraltro che l’esecutivo prendesse posizione in merito. In una lunga interrogazione dell’ottobre 2013, l’onorevole Flavia Nardelli Piccoli aveva spiegato che la liquidazione di Dexia Crediop avrebbe avuto “riflessi importantissimi sulla stabilità del sistema finanziario italiano, in quanto la suddetta banca detiene attivi (principalmente di enti pubblici locali e territoriali italiani) per circa 30 miliardi di euro e ha emesso obbligazioni detenute dai risparmiatori italiani anche non istituzionali per circa 9 miliardi di euro”.
A Parigi invece le cose sono andate diversamente. Consapevole della questione titoli tossici nei portafogli degli enti locali, lo Stato francese è intervenuto a inizio 2013. E ha comprato da Dexia, ad un prezzo simbolico, la Sfil, Société de financement local, società francese focalizzata sui prestiti agli enti locali d’Oltralpe. Il governo ha poi spinto per una ristrutturazione dei debiti degli enti attraverso un processo di negoziazione con l’obiettivo di dividere i costi fra collettività e banche. Allo stesso tempo, la Sfil, di cui sono soci anche la Cassa depositi e prestiti francese e le Poste d’Oltralpe, ha avviato la ristrutturazione dei prestiti concessi alle municipalità e la pulizia di 7 miliardi di titoli tossici. Grazie alla partnership con la Poste, gli enti locali sono riusciti ad ottenere nuovi finanziamenti a condizioni concorrenziali da destinare alle infrastrutture. Il percorso della Sfil è naturalmente solo agli inizi e non è indolore come testimonia il fatto che la società è ancora in perdita. Ma i risultati stanno arrivando: su 804 enti coinvolti, 91 non hanno più prodotti tossici. Senza contare che la negoziazione della Sfil, che impiega 400 persone provenienti principalmente dalla ex Dexia Crédit Local, ha permesso agli enti locali ( e quindi alle tasche dei cittadini) di beneficiare di una negoziazione collettiva, ridurre i costi e risparmiarsi enormi parcelle legali soprattutto per le controversie londinesi. Insomma, l’esatto opposto di quanto sta accadendo in Italia.