Destinare la quota dell'Irpef alla Chiesa o a un'altra confessione religiosa non è obbligatorio, ma la legge del 1985 stabilisce che l'8 per mille di chi non effettua la scelta viene ripartito tra i beneficiari "in proporzione alle scelte espresse". Così per i magistrati contabili vengono violate proporzionalità e uguaglianza
E’ “opportuna una rinegoziazione‘ tra Stato e confessioni religiose del sostegno finanziario che arriva con l’8 per mille. Dopo aver fatto le pulci al meccanismo del 5 per mille, ora la Corte dei Conti mette nel mirino il sistema, introdotto nel 1985, che prevede la destinazione di una quota di gettito fiscale alla Chiesa cattolica, ad altre dieci confessioni religiose (valdesi, comunità ebraiche, evangelici luterani e battisti, ortodossi, buddhisti, induista e avventisti, chiese cristiane avventiste del settimo giorno e pentecostali) e allo Stato. L’8 per mille, scrivono i magistrati contabili, vale 1,2 miliardi l’anno ma non rispetta “i principi di proporzionalità, volontarietà e uguaglianza”. Infatti i beneficiari “ricevono più dalla quota non espressa che da quella optata”. E su questo nodo “non vi è un’adeguata informazione, benché coloro che non scelgono siano la maggioranza e si possa ragionevolmente essere indotti a ritenere che solo con un’opzione esplicita i fondi vengano assegnati”.
In pratica, evidenzia la Corte, la maggioranza degli italiani (negli ultimi anni circa il 54%) quando compila la dichiarazione dei redditi non indica a chi vuole destinare la quota. D’altronde si tratta di un’opzione, non di un obbligo. Peccato che la legge “Disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici in Italia e per il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi”, varata quasi trent’anni fa dal governo Craxi, stabilisca che l’8 per mille di chi non effettua la scelta sia ripartito tra i beneficiari “in proporzione alle scelte espresse”. Così l’82% delle risorse finisce alla Chiesa cattolica, nonostante venga scelta esplicitamente come destinatario da poco più del 37% dei contribuenti. Per gli altri restano le briciole: 13,32% allo Stato, 3,2% ai valdesi e percentuali da prefisso telefonico alle altre confessioni.
“Stante la problematica rilevata”, si legge nella relazione, “sorprende che solo a partire dal 2006 nella scheda dell’8 per mille venga spiegato – seppure in caratteri minuscoli – il meccanismo di distribuzione delle quote. Peraltro, negli anni, la percentuale dei contribuenti che hanno optato è risultata quasi sempre ampiamente inferiore al 50%”, il che “dovrebbe indurre la presidenza del Consiglio a pubblicizzare le conseguenze della mancata opzione”.
I contributi alle confessioni “risultano ingenti, tali da non avere riscontro in altre realtà europee, e sono gli unici che, nell’attuale contingenza di fortissima riduzione della spesa pubblica in ogni campo, si sono notevolmente e costantemente incrementati. Nonostante ciò, la possibilità di accesso all’8 per mille per molte confessioni è oggi esclusa per l’assenza di intese, essendosi affermato un pluralismo confessionale imperfetto. Manca trasparenza sulle erogazioni: sul sito web della Presidenza del Consiglio dei Ministri, infatti, non vengono riportate le attribuzioni alle confessioni, né la destinazione che queste danno alle somme ricevute”.
Anche il comportamento dello Stato viene duramente censurato dai magistrati: “Mostra disinteresse per la quota di propria competenza, cosa che ha determinato la drastica riduzione dei contribuenti a suo favore, dando l’impressione che l’istituto sia finalizzato solo a fare da apparente contrappeso al sistema di finanziamento diretto delle confessioni”. Addirittura, lo “Stato è l’unico competitore che non sensibilizza l’opinione pubblica sulle proprie attività con campagne pubblicitarie”. Di qui “la marginalizzazione dell’iniziativa pubblica e la compromissione della possibilità di ricevere maggiori introiti”.
Sullo sfondo resta poi l’annoso problema della destinazione delle poche risorse (170 milioni stando agli ultimi dati) che finiscono nelle casse pubbliche: la legge prevede che vengano utilizzate per “scopi di interesse sociale o di carattere umanitario”, ma da sempre i governi tendono a utilizzarle come un bancomat per tamponare altre necessità. Così non di rado, in passato, le leggi finanziarie hanno distratto una quota di fondi destinandoli alle esigenze più diverse, comprese le missioni militari all’estero.
In più, una percentuale dell’8 per mille di competenza dello Stato viene strutturalmente destinata al “restauro di edifici di culto o di proprietà di confessioni”. Come dire che quel rivolo già esiguo di denaro viene in parte deviato ancora una volta in favore della Chiesa, che già prende gran parte della torta. Con l’ulteriore aggravante, scrive la Corte, che queste finalità sono chiaramente “antitetiche alla volontà dei cittadini” che vorrebbero destinare il loro contributo alla lotta alla fame nel mondo, all’assistenza ai rifugiati, agli interventi contro le calamità naturali o alla conservazione dei beni culturali statali, ovvero gli scopi per cui lo Stato dovrebbe impiegare la quota di sua competenza.