Ci risiamo: la doppia velocità dei carburanti torna a penalizzare gli automobilisti italiani. Stavolta però i consumatori non scontano prezzi alla pompa lesti a salire quando crescono le quotazioni del petrolio ma devono sopportare listini che non diminuiscono – almeno molto meno di quanto dovrebbero – nonostante il crollo del greggio di questi ultimi mesi.
Nel primo semestre dell’anno il barile di Brent, l’indice di riferimento per i prezzi in Europa, oscillava tra i 105 e i 115 dollari mentre nelle ultime settimane è sceso vertiginosamente a poco più di 70 dollari. A questa discesa veloce però è corrisposto un lento adeguamento dei prezzi dei carburanti tanto che, secondo l’ultimo report di Nomisma Energia, il “prezzo ottimale” della “verde” dovrebbe costare 4,2 centesimi al litro di meno di quanto viene praticato in questi giorni al distributore mentre il diesel dovrebbe scendere di circa 2,6 centesimi. I margini quindi per una discesa dei prezzi ci sono e sono più ampi di quelli – 1-2 centesimi al litro – registrati nelle ultime ore. Se poi andiamo a confrontare i listini italiani con quelli praticati nella zona Euro scopriamo un altro differenziale che pesa sulle tasche degli automobilisti. La differenza, il cosiddetto “stacco”, tra il costo industriale medio (quello senza imposte) della “verde” in Italia rispetto a quello praticato negli altri paesi europei è, secondo l’ultima rilevazione pubblicata dal Mise del 24 novembre, di circa 3 centesimi al litro.
Il prezzo ottimale della verde dovrebbe costare 4,2 centesimi al litro
Perché da noi i carburanti sono più cari? A pesare non ci sono solo il carico fiscale pur elevato (circa il 60% sul prezzo alla pompa) e una rete di distribuzione frastagliata e poco efficiente. A penalizzare i consumatori ci sono anche e soprattutto i contratti di approvvigionamento che in Italia, rispetto ai principali paesi europei, impediscono una vera concorrenza e quindi prezzi finali più convenienti. La stragrande maggioranza dei distributori italiani (il 60% secondo i petrolieri, fino all’80% ribattono i gestori e le associazioni dei consumatori) sono di proprietà di aziende petrolifere integrate e, nei contratti di fornitura, sono legati dal vincolo di esclusiva degli approvvigionamenti: il gestore può rifornirsi, al prezzo imposto, soltanto dalla casa madre. La quota rimanente – minoritaria – degli impianti – comprese le pompe bianche, i distributori della Gdo e i retisti indipendenti – è invece svincolata dai big petroliferi e quindi può rifornirsi liberamente sul mercato al prezzo migliore praticato da qualsiasi fornitore.
La forza delle pompe bianche, dove la benzina costa dai 10 ai 12 centesimi in meno rispetto alla media del mercato, risiede proprio qui, ovvero nella possibilità di scegliersi ogni volta il rifornitore più conveniente. Per dare un’idea, in Francia le proporzioni sono letteralmente capovolte: la stragrande maggioranza dei distributori è “indipendente” e non sopporta alcun vincolo di esclusiva negli approvvigionamenti. E la differenza rispetto all’Italia si vede: il costo industriale medio oggi da noi è di 620 centesimi, Oltralpe invece si abbassa a 578 centesimi, ben 0,42 euro in meno al litro.
Secondo una stima della Fegica-Cisl, una delle categorie più rappresentative dei gestori, togliendo il vincolo di esclusiva almeno sul 50% degli approvvigionamenti a regime ci sarebbe una riduzione dei prezzi alla pompa di 4-5 centesimi al litro. Qual è allora la ricetta? La liberalizzazione progressiva dei contratti di fornitura come chiede da tempo l’Antitrust e come il governo Monti tentò, ma senza successo. Nel dicembre 2011, con il decreto Salva-Italia, il governo dei tecnici inserì una norma che liberalizzava il 50% delle forniture a tutti gli impianti italiani, anche a quelli di proprietà delle aziende petrolifere. La norma scatenò le ira delle sette sorelle e le pressioni furono tali che Monti dovette battere in ritirata: il vincolo sul 50% fu eliminato ma solo ai gestori titolari della licenza (proprietari cioè dell’impianto) ovvero poco meno di 800 su una rete di 24mila punti vendita. Una farsa.
Da tempo l’Antitrust chiede la liberalizzazione progressiva dei contratti di fornitura
Se sul costo industriale i margini di intervento strutturale ci sono, anche lo Stato daziere potrebbe fare la sua parte rispolverando una norma dell’allora governo Prodi (comma 290 della legge 244/2007) per evitare la speculazione pubblica sull’aumento del prezzo del petrolio. E’ la norma sull’accisa mobile, ovvero un meccanismo che prevede una riduzione trimestrale delle accise compensata dalle maggiori entrate dell’Iva che lo Stato incassa ad ogni aumento del prezzo dei prodotti petroliferi. L’accisa mobile si aziona per decreto e solo una volta (nel 2008, con un provvedimento a firma Visco-Bersani) è stata attuata. E questo solo per dire che, volendo si può fare. Un promemoria per il governo Renzi: quando il petrolio tornerà ad alzare la testa, non si dimentichi di destinare parte dell’extragettito Iva alla riduzione delle accise.
di Francesco Contini