Due giorni, una notte. Tanto è il tempo a disposizione di Sandra per salvare il suo posto di lavoro. Ma non è solo una questione di tempo, e ciò non fa che aumentare il suo tormento. Si tratta di convincere i colleghi a rinunciare a un bonus promesso dall’azienda in alternativa del quale può essere riassunta: il premio “misura” mille euro, una cifra oggi deprivata di significato assoluto a favore di un peso relativo ai bisogni. Ed anche di questo Sandra è consapevole, perché ognuno ha le sue buone ragioni davanti a un dono di mille euro, e lei ben conosce ogni suo collega. D’altra parte non ha scelta, o il suo lavoro o il bonus per gli altri, le due cose non possono coesistere. Ad aggravare la situazione si palesa la depressione, di cui Sandra è ammalata e che ha fornito la ragione di sue numerose assenze. Il suo periodo di pausa per malattia è stato il facile pretesto del datore di lavoro per scegliere lei – e non altri – quale capro espiatorio di una crisi viscerale. Sostenuta dal marito, Sandra inizia una via crucis a ritmo forsennato, bussando alla porta di ogni collega ed implorando di salvarle il posto di lavoro, di salvarle la vita.
Una storia d’angoscia quotidiana, dell’uomo/donna qualunque di un’Europa disumanizzata, un fatto di cronaca verosimile che si traduce in film per mano di Jean-Pierre e Luc Dardenne, i più talentuosi fratelli sceneggiatori e registi del cinema d’autore del mondo. Due giorni, una notte ne costituisce il titolo, secco e lapidario perché è già narrazione di un hic et nunc che odora di urgenza. L’opera, interpretata dagli intensi Marion Cotillard (Sandra) e Fabrizio Rongione (il marito), era in concorso all’ultimo Festival di Cannes, esce nelle sale romane e milanesi per poi estendersi all’intero territorio del Belpaese dal 20 novembre. Come in ogni pellicola della premiata filmografia dei fratelli belga – Jean-Pierre 63 anni e Luc 60 anni – il soggetto è intriso di dolore socio-esistenziale, diversamente declinato in emergenze d’interesse universale prima che locale, ma sempre prive di generalizzazioni. Dopo aver magistralmente denunciato svariate forme di sfruttamento, precarietà e disagio del nostro tempo – specie nel mondo giovanile – e aver vinto due Palme d’oro, in Due giorni, una notte i Dardenne puntano in forma ancor più diretta e precisa al cuore del problema, laddove non esistono Cattivi, ma solo persone che hanno le sacrosante ragioni per difendere i propri diritti. “Mettiti nei miei panni” pietisce Sandra ai suoi colleghi. Mettetevi nei suoi panni, invita il film agli spettatori. Empatizzare con Sandra è elementare quanto capire le ragioni degli altri: ma cosa farei io se dovessi rinunciare a ciò che mi permette di pagare la scuola a mio figlio, o accendere un mutuo, o saldare delle cure mediche? Ed ecco ritornare l’implacabile vita tua mors mea.
Ecco che il vero male assoluto giace in un Sistema che ha perverso tale difesa, ed ancor più tragicamente s’immerge nel diabolico significato di un vocabolo inglese divenuto sinonimo di successo: performance. Dal dizionario si ottengono sostantivi come “prestazione, esibizione, risultato, rendimento ed affermazione”. Tutto ciò che compone il performer modello di oggi, un combattente brillante, carismatico, vincente. Con il non meno inquietante traducente di “rappresentazione, interpretazione”, afferendo così al contesto della finzione teatrale o cinematografica. Non siamo più quindi nel mondo dell’Essere ma del “mostrare di essere”, di un’apparenza così forte da convincere gli altri e noi stessi di valere. In opposizione naufraga la maggioranza dei loser, cioè l’umanità con problemi normali, ridotta a subire – e a perdere la dignità oltre che il lavoro – perché la crisi economica ci ha mostrificato. Per i Dardenne, che da anni pensano a questo soggetto desunto dal racconto di situazioni verosimili, si tratta di “una storia costruita in antitesi. Da una parte la realtà e, dall’altra, la favola, la fiction, perché volevamo ci fosse un segnale di speranza. La realtà è già sufficientemente dura per rendere disperati tutti noi, in un’Europa ormai troppo liberale, che rischia di smantellare servizio pubblico, compresa la sanità”. Più semplice sarebbe stato testimoniare la crisi endemica attraverso la forma documentaria, ben più sottile è la sfida della finzione, che solo a pochi – e tra questi ai fratelli Dardenne – riesce ad Arte. “Perché solo attraverso l’Arte usciamo da noi stessi e conosciamo un’altra percezione dell’universo” diceva Proust.