“La Sentenza sul diritto all’oblio e Google”, “Google deve riconoscere il diritto all’oblio”, “Google e il rompicapo del diritto all’oblio”, “Google sul diritto all’oblio: Siamo qui per ascoltare”.

Sono questi e decine come questi i titoli dei giornali italiani e stranieri che negli ultimi mesi hanno reso noti, in tutto il mondo, l’ormai celeberrima decisione della Corte di Giustizia dell’Unione europea dello scorso mese di maggio e le riflessioni che ne sono seguite.

Al centro, sempre, la decisione con la quale, i supremi giudici europei – risolvendo una questione sorta in Spagna, proprio in materia di diritto all’oblio – hanno, per la prima volta, stabilito che i gestori dei motori di ricerca devono deindicizzare, dietro semplice richiesta degli interessati, qualsiasi contenuto pubblicato online, salvo che ricorrano ipotesi eccezionali per le quali si possa ritenere prevalente un interesse pubblico ad accedere all’informazione in questione, anche attraverso i risultati di una ricerca.

Colpisce, pertanto – anche se non sorprende gli addetti ai lavori –  a una manciata di mesi dalla decisione, scorrere le venti pagine con le quali, lo scorso 26 novembre, i Garanti europei hanno adottato le linee guida che intendono utilizzare nell’implementazione della decisione, e non trovarvi, neppure una volta, l’espressione “diritto all’oblio” né alcuna espressione equivalente.

Eppure gli stessi Garanti Europei, poco prima dell’estate, nell’invitare i rappresentanti dei grandi motori di ricerca ad un incontro propedeutico proprio all’adozione del documento pubblicato nei giorni scorsi, avevano battezzato la Sentenza della Corte come “CJEU’s Judgment on the Right to Be Forgotten”.

L’estate, evidentemente, ha portato consiglio ed suggerito ai Garanti europei di condannare all’oblio il link tra la decisione della Corte di Giustizia ed il diritto all’oblio, ampliandone – come è, peraltro, tecnicamente corretto che sia – la portata e parlando, più semplicemente, di una Sentenza che stabilisce semplicemente il principio secondo il quale il gestore di un motore di ricerca è titolare di un trattamento di dati personali, autonomo ed indipendente rispetto a quello posto in essere da chi pubblica un contenuto, consistente nell’associazione del nome di una persona ad un determinato contenuto attraverso un link, restituito, tra i risultati, a chi cerca informazioni su quella persona.

E’, peraltro, una lettura ineccepibile – sul piano tecnico – della Sentenza della Corte di Giustizia che, probabilmente complice la vicenda dalla quale era nata – in materia appunto di “diritto all’oblio” – è stata, sin qui, interpretata in modo limitato e restrittivo.

Ma a leggere così la Decisione della Corte di Giustizia, guidati dalle indicazioni dei Garanti Privacy europee, quella Sentenza, pure pronunciata per garantire ad un cittadino europeo il proprio fondamentale diritto alla privacy, finisce con il fare ancora più paura e rappresenta una minaccia ancor maggiore per il diritto – egualmente fondamentale – di centinaia di milioni di cittadini europei a produrre informazioni ed ad accedervi, attraverso ogni risorsa resa disponibile dal progresso tecnologico, inclusi, ovviamente, i motori di ricerca.

Caduto il velo del “diritto all’oblio” – come era giusto e naturale cadesse, trattandosi solo di un equivoco mediatico – oggi è ancor più evidente come quella decisione abbia, di fatto, reso Google e, con lui gli altri grandi motori di ricerca, signori dell’informazione online, padroni incontrastati del destino di ogni contenuto pubblicato nella spazio pubblico telematico e del quale qualcuno – non già dopo anni ma anche dopo una manciata di ore dalla sua pubblicazione – chieda la deindicizzazione.

Se fino a ieri – sebbene sulla base di una lettura approssimativa della decisione della Corte di Giustizia – si è detto spesso che, con la Sentenza, si stava affidando a Google il potere di scrivere la storia o, almeno, di decidere se e in che termini gli storici avrebbero potuto raccontarla.Ora bisogna prendere atto che i grandi motori di ricerca sono principi anche dell’informazione del presente.

Se un blogger, un giornalista o un cittadino qualsiasi in un qualsiasi spazio online parla male di voi è ormai diventato inutile cimentarsi in un confronto serrato con l’autore del contenuto e con i suoi avvocati perché per assicurarsi che nessuno, di fatto, acceda a quel contenuto tanto scomodo basta semplicemente chiedere a Google e a una manciata di altre corporation che lo facciano scomparire per sempre dai risultati delle ricerche.

E’ vero – come scrivono e sottolineano i Garanti privacy europei – che il contenuto in questione resterà online, accessibile a chiunque ma, sul punto, bisogna evitare ogni pericolosa ipocrisia e scongiurare il rischio di affrontare questioni tanto delicate salendo sulle nuvole della teoria: nel web di oggi, un contenuto che non è indicizzato bene già non esiste perché nessuno lo raggiungerà mai davvero, facendosi largo nei terabyte di informazione che lo circondano, figurarsi un contenuto che non è più indicizzato affatto, perché i grandi motori di ricerca hanno reciso di netto ogni link con il nome o lo pseudonimo del protagonista di quella storia.

Siamo davvero al paradosso: mentre l’Europa sembra intenzionata ad andare allo scontro culturale e politico contro i giganti del web e, forse, persino gli Stati Uniti che gli hanno dato i natali, la stessa Europa – difficile dire se per miopia o desiderosa di una “vittoria” anche se di Pirro – consegna il bene più prezioso di ogni democrazia ovvero la libertà di informazione nelle mani delle corporation americane, chiedendo loro di diventare arbitri di ogni partita tra chi vorrebbe un contenuto accessibile all’intera umanità e chi lo vorrebbe veder sprofondare nel grande buco nero dell’informazione online non indicizzata.

Stiamo perdendo e cantiamo vittoria come se avessimo stravinto.

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