Siamo in una fase che potrebbe definirsi rivoluzionaria: tutte le società vivono profondi rivolgimenti legati alla velocizzazione delle comunicazioni e al cambiamento degli assetti produttivi al livello mondiale. Non solo vediamo traballare tutte le istituzioni nazionali – dal Presidente della Repubblica, mai così in basso in termini di popolarità, agli organi costituzionali, alle forze armate, ai partiti e ai sindacati, alla scuola, al variegato mondo della giustizia – ma è lo stesso concetto di Stato che è messo in discussione.
Tra le pressioni esterne che erodono sovranità in favore di organizzazioni internazionali e le spinte interne di vecchi e nuovi focolai di autonomismo che derivano da una ricerca di identità speculare all’omogeneità globale, non sappiamo come si trasformerà lo Stato negli anni a venire. Non solo, ma fenomeni dirompenti come l’astensionismo ormai consolidato nelle competizioni elettorali ci portano a riconsiderare la stessa idea di democrazia, come forma di governo che avremmo voluto veder realizzata almeno tendenzialmente.
Imbevuti in una cultura che ancora influenzata da scampoli di illuminismo, siamo cresciuti nella convinzione o almeno nella speranza che il progresso passasse per un ampliamento “graduale” delle libertà e dei diritti individuali. Oggi ci troviamo a constatare, al contrario, che certe pretese (come quella delle pari opportunità di genere) hanno interessato una parte limitata dell’umanità (solo alcune società più avanzate dell’Occidente) in un periodo ancor più limitato di tempo (cinquanta, tutt’al più cent’anni, che sono un frammento del corso della storia).
In più, assistiamo a uno spostamento dell’asse degli equilibri mondiali – in termini economici, quindi politici e culturali – verso Oriente. Dopo un secolo di dominio statunitense, dove almeno formalmente erano proclamati certi diritti fondamentali come quello alla “felicità”, si va verso società come quella russa o cinese che hanno un’idea molto diversa dei rapporti tra individuo e comunità. Tutte queste considerazioni portano a una grande incertezza circa il futuro: non sappiamo cosa saremo tra vent’anni; per quel che ci riguarda direttamente, c’è addirittura qualche studio che dice che non resterà nulla dell’Italia così come l’abbiamo conosciuta.
A proposito di carcere, che è l’argomento cardine di questo mio blog, di una cosa si può essere abbastanza certi: il sistema che tuttora caratterizza la gran parte degli istituti penitenziari, dove si sta 22 ore chiusi in cella con altre tre, quattro o talvolta anche più di dieci persone, sarà presto un brutto ricordo del passato. Non solo è disumano ma anche illogico e alla fine controproducente. Mi è sempre piaciuto il paragone, suggeritomi da uno studente detenuto nel corso dei miei lunghi e fruttuosi anni di insegnamento in carcere, del carcere come una lavatrice rotta, che tira fuori panni più sporchi di quelli che ci vengono inseriti. È assurdo spendere una cospicua quantità di risorse pubbliche per tener dentro individui che quando usciranno saranno peggiori di quando erano entrati; ancora più motivati e a volte quasi obbligati a commettere reati, che è esattamente quel che noi vorremmo scongiurare, contribuendo con le nostre imposte al mantenimento della pacifica convivenza.
C’è un risvolto della medaglia: in seguito alla nefasta combinazione tra una crisi economica (e sociale) senza precedenti e un aumento dei flussi migratori (che vanno a inserirsi in un sistema della giustizia che fa acqua da tutte le parti), si fa sempre più urgente tra i cittadini un bisogno di sicurezza contro il dilagare della criminalità. Al di là delle risposte semplicistiche sbandierate da chi si crogiola nella propaganda smaccatamente razzista (purtroppo sempre efficace), credo che l’unico modo di affrontare il problema sia quello di riconfermare il valore della legalità e assicurare pienamente la certezza della pena. Il che va inteso non nel senso di “gettare la chiave”, ma nella concreta attuazione della pena così com’è prevista dal nostro ordinamento: a partire dal principio costituzionale contenuto nell’art. 27 e dalla legge 354/75 dell’Ordinamento Penitenziario che a quel principio si informa.
Tutto passa per il reinserimento del condannato, da ottenere con il trattamento e la progressiva concessione di misure alternative alla detenzione. È un’assurdità tenere una persona chiusa in una gabbia (che dovrebbe essere extrema ratio in casi di conclamata pericolosità sociale) fino al giorno prima del “fine pena”; per poi improvvisamente rimetterlo in libertà aspettandosi che, col marchio di pregiudicato che si porterà appresso, trovi un lavoro onesto e non cada nella recidiva.
Il discorso della rieducazione del condannato, con tutti i dubbi del caso, va a incontrarsi con l’idea di education con cui in inglese si indica il servizio dell’istruzione. Ecco, è difficile immaginare un percorso di reinserimento sociale che non passi per scuola e lavoro in carcere, uniche due attività che possono offrire opportunità alternative alla devianza. E allora, tornando al paragone della lavatrice, noi operatori e insegnanti in carcere possiamo fare da detersivi e ammorbidenti. Ma non possiamo fare miracoli se la lavatrice (basandosi su un codice degli anni 30) è completamente rotta. Non sappiamo se basta una riparazione o va completamente sostituita. Non sappiamo neanche se è solo la lavatrice o tutta la stanza o l’intera casa da rifondare. Di certo, abbiamo urgente bisogno di una seria, organica riforma complessiva della giustizia.