Domani si celebrerà la Giornata Internazionale dei Diritti dei Disabili. A che punto sia giunta l’assistenza al disagio psichico nel nostro Paese la terribile lettera che segue lo testimonia a pieno. Il racconto di una madre con un figlio in difficoltà, la drammatica ricerca dalla Lombardia alla Campania di un posto dove si possa vivere, pesano come macigni e reclamano una risposta dalle istituzioni.
Ho ritenuto utile pubblicare integralmente la lettera perché tutti quelli che nelle prossime ore spenderanno fiumi di parole sulle buone prassi (che esistono ma sono largamente minoritarie), mantengano chiaro il principio che, finché ci sarà una storia come questa in Italia, nessuno può considerare esaurite le proprie responsabilità. La lettera contiene giudizi e commenti che vanno ovviamente letti come lo sfogo di una donna che si sente ed è abbandonata da tutti. L’augurio che rivolgo a tutti gli “esperti” della disabilità che si esprimeranno in questi giorni è quello di confrontarsi innanzitutto con la vita di Francesco e di sua madre Federica. O di tacere.
Chi scrive è una madre indignata e, a dir poco, disperata. Abbandonata e tradita (anzi, fregata) da coloro che avrebbero dovuto farsi carico delle cure di mio figlio Francesco (oggi 23enne), disabile psichico con seri disturbi comportamentali. Mi riferisco ai medici del Centro di Salute Mentale di competenza distrettuale del (famigerato) quartiere napoletano di Ponticelli, dove vivo.
I problemi di Francesco si sono evidenziati con prepotenza quando lui aveva 16 anni. Non mi vedeva più come una madre ma come una “donna”. Mi accarezzava in modo sensuale e tentava ripetutamente di farsi mettere le mie mani sui suoi genitali. Successivamente è caduto preda di allucinazioni uditive e visive. Vedeva persone inesistenti e sentiva voci che gli ordinavano di eseguire determinate cose, tra le quali gettare oggetti (anche mobili) dal balcone, picchiare il primo a tiro… me compresa!
Ci sono voluti ben due Tso (Trattamento Sanitario Obbligatorio) di urgenza affinché il dipartimento di salute mentale prendesse in carico il paziente. Lo psichiatra capì che la situazione era delicata (e di estrema pericolosità) e così decretò che il ragazzo non poteva più restare tra le mura di casa poiché erano proprio le condizioni ambientali a determinare quelle allucinazioni che scatenavano la furia.
Con non poca difficoltà Francesco fu inserito nel 2010 presso un istituto specializzato di Cortona dove non solo si rasserenò, ma veniva impegnato in attività ludiche, lavorative e di socializzazione. Era totalmente cambiato. Era vigile e comunicativo e gli episodi di aggressività si erano limitati parecchio. Anch’io ritrovai la mia serenità ritornando a svolgere con continuità il mio lavoro.
Nel gennaio 2014 la direzione dell’istituto mi comunicò che la Regione Campania era insolvente con i pagamenti (ai quali compartecipavo con una rilevante quota a mio carico) e non potevano continuare a mantenere mio figlio “gratis”. A fine febbraio il Primario del Centro di Salute Mentale di Ponticelli (che in ben quattro anni non si è mai degnato di fare una visita al paziente presso l’istituto) è andato a Cortona e, dopo aver parlato, mangiato, bevuto (e, probabilmente, anche scherzato) con i responsabili della struttura ha deciso (con l’aiuto di un avvocato amministratore di sostegno del ragazzo nominato dal Tribunale di Arezzo) di acconsentire alle dimissioni di mio figlio!
Alle mie rimostranze, mi ha tranquillizzato promettendo che avrebbe sistemato Francesco presso una clinica psichiatrica, Villa Camaldoli (praticamente, una sorta di manicomio), per il tempo necessario a convocare una Uvi (Unità di Valutazione Integrata) interdipartimentale con gli altri colleghi onde trasferire poi il paziente in una struttura adeguata alla sua patologia. Il tutto nel giro di un mese o al massimo due.
Francesco entrò in clinica psichiatrica il 3 marzo 2014, l’Uvi non fu mai fatta (nonostante potesse essere eseguita anche con la sola documentazione clinica del paziente) e ad una delle mie tante sollecitazioni telefoniche in merito il Primario del Centro di Salute Mentale mi rispose (testuali parole): “Signora io non so cosa fare, vada magari a trovare tutti i giorni suo figlio in clinica per tranquillizzarlo”!
Con quelle assurde parole il primario si scrollò di dosso tutte le sue responsabilità e quel “mese o poco più” di permanenza di mio figlio presso la clinica si sono, di fatto, trasformati in SETTE MESI! Sette mesi in cui il ragazzo manifestava gravissimi segni di squilibrio, nonché di insofferenza, scatenando la sua rabbia contro oggetti e persone. Disperata chiamo il mio ex marito (padre del ragazzo) che vive e lavora a Milano e di comune accordo decidiamo di stabilire la residenza di Francesco a Milano, poiché avevamo accertato che in Lombardia vi sono molte strutture adeguate e che la disabilità è seguita con maggiore impegno. Nel mese di maggio mio figlio ottiene la residenza a Milano e da parte mia invio diverse richieste di inserimento di Francesco in strutture idonee dislocate nella Regione Lombardia.
Siccome al mese di settembre la situazione ristagnava e gli assistenti sociali del Comune (contattati in loco dal mio ex marito) avevano invitato a portare il paziente a Milano altrimenti l’iter procedurale non sarebbe mai partito, dal 4 di ottobre io e mio figlio ci siamo stabiliti a Milano. Gli assistenti sociali dell’area disabili del comune visitano il ragazzo allertando che i tempi di attesa per una sistemazione saranno lunghi, in più stigmatizzando che le dimissioni di Francesco dall’istituto di Cortona non dovevano avvenire se in assenza di una sistemazione alternativa adeguata!
Dal 4 ottobre io e mio figlio viviamo in un piccolo appartamento di periferia a Milano. Mi sento sola, abbandonata, e con una rabbia mista ad amarezza per l’assurda “fregatura” che ho ricevuto da coloro che avrebbero dovuto provvedere a curare mio figlio come si conviene. Non ho contatti nè rapporti sociali e Francesco è ritornato quello che era quattro anni fa, prima di entrare nell’istituto di Cortona. Da quando è uscito – grazie a quei criminali del Centro di Salute Mentale – è peggiorato. E’ ossessionato da ogni piccolo dettaglio, è metodico e tutto deve andare secondo la sua logica distorta, non posso neppure parlare liberamente al telefono: pena la violenza. Mi costringe a stare sveglia la notte insieme a lui perché deve riempire per ore e ore le pagine dei quadernoni con numeri e date senza senso, devo ingozzarmi di cibo per non contraddirlo, devo essere attenta al tono della voce o ai minimi gesti perché potrebbe reagire con violenza, come è successo quattro giorni fa quando mi ha mollato un pugno nello stomaco che mi ha piegato in due dal dolore… soltanto perché una banale parola che avevo detto non gli era piaciuta! Qualche giorno prima ha rotto il sifone del lavandino per lo stesso motivo.
Molte notti mi ha tenuto sveglia perché farneticava su rumori, voci e addirittura sulle luci dei lampioni esterni. Lo faceva anche quattro anni fa e solitamente erano preludi a sfoghi violenti. E’ fissato con le mie rughe, la mia bocca e i miei occhi, dice che questi ultimi gli danno fastidio perché sono più grandi dei suoi e per questo devo farli più piccoli. E se non lo faccio?
Non sono tranquilla, ho paura. Lui pesa 130 kg e io 48. Sono allo stremo delle forze fisiche e mentali, sono trascorsi due mesi senza nulla di fatto. Anche qui a Milano non si rendono conto della gravità della situazione. Gli assistenti sociali sottovalutano con disinvoltura il problema dicendo che le liste di attesa sono lunghe e che il Comune ha sospeso l’erogazione dei fondi. Il Cps (ovvero il reparto psichiatrico della Asl) non vuole prendere in carico il paziente (poiché sostiene che la sua patologia borderline tra autismo e psichiatria sia di competenza del Comune) e si è rifiutato più volte addirittura di visitarlo nonostante mio figlio sia stato segnalato da me e dai medici del pronto soccorso dell’Ospedale S.Paolo in seguito a due interventi per stato di agitazione!
Ho abbandonato la mia famiglia a Napoli e un lavoro al quale devo assolutamente tornare (a metà dicembre scade il permesso) per non perdere l’incarico che copro attualmente. Il padre non può prendersi cura del paziente poiché è affetto da una grave miopatia degenerativa (si accompagna col bastone) ed è sieropositivo (assume anche farmaci che causano narcolessi). E’ mai possibile che nessuno riesca a capire l’urgenza? Che non si riesca ad attivare una procedura di urgenza?
Aiutatemi, vi prego.
Federica Maiello