Il 3 dicembre segna il ritorno in celluloide dei due stupidoni più allegri e ingenui di sempre. Jim Carrey e Jeff Daniels ricompongono il duo cult che li ha imposti vent’anni fa a livello planetario. Un sequel demenziale con due assi della risata politicamente scorretta per un altro road-movie tutto gag e stupidaggini d’autore
È passato un ventennio ma il fenomeno Scemo & + Scemo resta sempre un must per gli estimatori della battuta grassa, sporca e scorretta. Il demenziale americano è un genere paragonabile per goliardia e sfacciataggine al trash italiano proliferato tra la fine dei settanta e i primi anni ottanta. Quello bistrattato che spiava dai buchi della serratura tra caserme e giarrettiere. Accomunati dal coraggio di ridere, e dal successo nel far ridere dei tabù più inammissibili, demenza e libido, con questo cinema corpo femminile e ventralità maschile diventano leve di comicità.
Nel ’94 Peter e Bobby Farrelly hanno esordito dietro la macchina da presa scrivendo alcune pagine tra le più smargiasse e popolari del genere demenziale. Tutti i piccoli capisaldi provenienti dal loro lavoro, Io, me e Irene, Tutti pazzi per Mary e il meno conosciuto Kingpin, compresa l’epica dei fessacchiotti Harry e Lloyd, sono imbevuti di sentimentalismo. In Scemo e più scemo 2 l’elemento che completa le loro devastanti avventure e scatena le risate del pubblico meno meccaniche è proprio l’amicizia. Jeff Daniels e Jim Carrey incarnano due languidi amici alle prese col mondo per tirare a campare. Vorrebbero solo un’anima gemella, qualche quattrino e la possibilità di spassarsela, ma ogni loro scelta diventa spunto per sviluppi strampalati. Così, subaffittare una stanza a un cuoco di metanfetamine, per Harry vuol dire avere a che fare con un produttore di caramelle. Mentre per Lloyd sembra da sballo tenere un catetere per vent’anni simulando una paresi totale per fare lo scherzo degli scherzi all’ingenuo compagno d’avventure.
Un sequel così distante dal primo, di solito non è una grande idea: i protagonisti sono molto cambiati e le atmosfere diventano posticce. Nel caso di questa coppia di picchiatelli, invece, la forma è ancora smagliante. Daniels si porta in più soltanto chili e lune ma il suo Harry ha stesse goffaggini e risatine, e più di tutto la stessa verve beota del primo capitolo. Il suo ruolo va molto oltre la semplice spalla. Carrey invece resta il grande comico di sempre, erede naturale di Jerry Lewis, ma come i grandissimi del calcio che invecchiando mostrano bagliori di classe e gloria al semplice tocco del pallone, il divo canadese si adatta a un personaggio più invecchiato di lui e meno “faccia di gomma” di come lo impegnava nei novanta.
La corsa stavolta è per raggiungere la figlia di Harry in un importante convegno scientifico. Così i Farrelly Brothers non perdono di vista la struttura del viaggio, a loro cara, permettendo ai protagonisti di inanellare incontri e gag con personaggi impensabili, altrimenti ingiustificati. E il divertimento non manca: becero, scorretto e antigravitazionale per il disimpegno. In una parola demenziale. Il buono di questo cinema è che ha lo scopo puro e primordiale di ridere per ridere. Niente raffinatezze nel linguaggio, zero riflessioni e appiglio immediato allo sketch per uno humour di pancia. Nulla di più liberatorio se impunemente limitato allo schermo.
Guardando le date dei film, 1994 e 2014, fa sorridere che il ventennio corrisponda a una certa stagione italiana spesso altrettanto demenziale, ma sfortunatamente meno comica, e chissà, forse neanche del tutto finita. Riferimenti al berlusconismo a parte, il film dei Farrelly ha dei momenti clowneschi che fanno sbellicare. E soprattutto, al contrario di quell’altro, è un ventennio che in cambio di poco più di tre ore (in due film) di comiche pazzesche, ci è costato in tutto – esclusivamente per il pubblico di sala – soltanto due biglietti di cinema. Uno dei quali anche in lire.