Le ultime trimestrali degli istituti italiani mostrano profitti in aumento. Ma sono risultati "costruiti" riducendo le coperture per far fronte alle sofferenze, che continuano a lievitare. Il braccino corto è già costo care alle banche italiane in sede di valutazione dei bilanci da parte della Bce
Dietro la cortina fumogena dei profitti evidenziati dagli ultimi bilanci trimestrali, la situazione del sistema del credito italiano rimane ben più fosca. Le banche continuano infatti ad essere delle macchine mangia valore. Lo ha lasciato intendere, con altre parole, il presidente di banca Monte dei Paschi di Siena Alessandro Profumo, affermando, alcuni giorni fa, che “le ultime trimestrali sembrano fantastiche ma la migliore ha un ritorno sul capitale del 5% con il capitale che costa il 10 per cento. Siamo ancora sott’acqua”. Cosa significa? Semplificando, il costo del capitale è l’interesse che un soggetto deve offrire a un potenziale investitore per convincerlo a mettere i suoi soldi nella sua azienda. Più l’attività è rischiosa più la remunerazione deve essere alta. Se così non fosse la scelta più logica per qualsiasi investitore sarebbe quella di puntare i suoi soldi in attività a basso rendimento ma prive di rischio come sono, in teoria, alcuni titoli di Stato. Attualmente per attrarre capitali gli istituti italiani devono offrire un rendimento del 10 per cento. Il problema è che poi con questi soldi riescono a ottenere guadagni che nel migliore dei casi arrivano al 5 per cento. Detta in altri termini, con un milione di euro riescono a farne fruttare 50mila, ma poi devono pagare interessi per 100mila. Basta fare due più due. Un recente studio di Credit Suisse vede una profittabilità in crescita per le principali banche italiane. Ma per Intesa Sanpaolo, la migliore, nel 2015 si arriverà al 7 per cento. Unicredit raggiungerà il 6,8%, Ubi il 4,3 per cento.
Eppure, escluso il caso Mps che fa storia a sé, i dati dei primi nove mesi del 2014 hanno in molti casi evidenziato utili miliardari. Unicredit (reduce da un 2013 con perdite per 14 miliardi di euro principalmente a causa di svalutazioni su crediti dubbi addolcite dalla promessa di riportare i profitti a 2 miliardi già quest’anno) ha archiviato il periodo gennaio-settembre con 1,8 miliardi di utili. I nove mesi di Intesa Sanpaolo hanno portato alla banca 1,2 miliardi di guadagni, il doppio dello stesso periodo del 2013. Migliora anche Ubi con i suoi 150 milioni. E’ però importante capire come sono stati costruiti questi risultati. Le prime cose che balzano all’occhio sono gli aumenti dei proventi da commissioni e la riduzione delle rettifiche per far fronte alle sofferenze, cioè i crediti difficili da recuperare. Sono cioè diminuiti i soldi che le banche destinano a coprire i mancanti pagamenti di interessi o rimborsi sui finanziamenti concessi a soggetti che non riescono più a restituirli. Il problema è che le sofferenze non sono diminuite, anzi: il loro ritmo di crescita rallenta ma continuano ad aumentare. E non smetteranno di farlo, visto che l’inversione di rotta arriva abitualmente dopo 12-18 mesi dalla comparsa del segno più davanti al Pil.
In questo quadro Unicredit ha per esempio portato le rettifiche dai 4,1 miliardi dei primi 9 mesi del 2013 a 2,6 miliardi dello stesso periodo del 2013. Nel frattempo i crediti deteriorati lordi hanno però raggiunto gli 83,4 miliardi di euro con un incidenza sul totale dei crediti erogati pari al 16,1% contro il 15,7% di fine 2013. In pratica ogni 100 euro di finanziamenti concessi, 16 sono a rischio. Per di più è in continua contrazione la quantità di crediti alla clientela, che dai 504 miliardi dei primi 9 mesi 2013 sono scesi agli attuali 470 miliardi. Le rettifiche di Intesa Sanpaolo, la banca messa meglio dopo Credem sul fronte della qualità del credito, sono scese di 500 milioni, da 4 a 3,5 miliardi. I crediti ‘malati’ del gruppo, al netto delle coperture (ossia la quota di perdite sui crediti dubbi già messe a bilancio) salgono a 32 miliardi dai 30 dello stesso periodo del 2013.
Ubi dal canto suo ha alzato le rettifiche da 576 a 626 milioni, ma i prestiti dubbi lordi superano ormai i 13 miliardi contro i 12,6 di fine 2013 (9,4 miliardi il valore netto, una volta effettuate le rettifiche). Anche il Banco Popolare, che ha chiuso i 9 mesi con una perdita di 121 milioni, ha aumentato le rettifiche, salite da 684 milioni a oltre un miliardo di euro. Ciò nonostante i crediti deteriorati netti sono saliti da 14 a quasi 15 miliardi di euro, con un’incidenza sul totale dei prestiti che passa dal 16,3 al 17,8 per cento. Quasi un euro ogni cinque di finanziamenti è a rischio.
Il braccino corto sulle coperture dei crediti deteriorati – determinato dalla speranza in una ripresa che non arriva – è già costato caro alle banche italiane. La revisione dei bilanci (in gergo Asset quality review o Aqr) di Banca centrale europea e Autorità bancaria europea, come evidenziato dall’economista Angelo Baglioni su Lavoce.info, ha messo in luce la necessità di ingenti rettifiche aggiuntive. Dai 4 miliardi e oltre di Mps agli 1,6 di Banco Popolare al miliardo di Intesa Sanapolo e Unicredit, fino ai 500 milioni di Ubi, per citare solo i big.
Che la partita contro i crediti deteriorati sia ancora tutta da vincere non è un segreto per chi opera in Borsa. Non è un caso che tutte le banche italiane siano regolarmente valutate meno del valore del loro patrimonio netto (in pratica quello che rimane dalla differenza tra attivi e passività di una banca). Negli Stati Uniti è in voga una regoletta un po’ rozza ma non priva di efficacia concepita negli anni ’80, durante la crisi bancaria che colpì in particolare molte istituzioni finanziarie del Texas. Il cosiddetto ‘Texas ratio’ identifica come “a rischio”, o comunque bisognose di capitale aggiuntivo, tutte le banche che presentano un rapporto tra patrimonio e crediti deteriorati superiore al 100 per cento. Il Banco Popolare presenta un rapporto del 153%, Ubi dell’87%, Unicredit dell’80% e Intesa Sanpaolo del 71 per cento.