Ho letto con interesse il pezzo di Guido Ceronetti pubblicato con grande evidenza su La Repubblica di venerdì 28 novembre, dal titolo «Il rom non esiste torniamo a chiamarli zingari».
Ceronetti è un battitore libero. E come tutti i battitori liberi non ha bisogno di cercare consenso o di inserirsi in un dibattito. Gli basta gettare il sasso nello stagno: più è grosso il sasso, più le acque si increspano e le onde si propagano. E in effetti, il suo sasso ha fatto rumore, ha agitato la superficie. Questo era lo scopo suo e del suo giornale.
A caldo, però, non mi sono chiesto tanto se Ceronetti avesse torto o ragione, quanto piuttosto: perché quel sasso, perché ora? Voglio dire: che fastidio dà a Ceronetti il fatto che si usi rom invece di zingaro? Che senso ha agitare le acque del lessico, ora? Non è un sasso gettato fuori tempo massimo?
Da anni, ormai, rom è infatti entrato, a pieno diritto – essendo un cosiddetto “etnonimo” (anzi, più propriamente un autònimo), un nome di popolo usato da parte di quel popolo stesso per autodesignarsi – nel linguaggio non solo giornalistico e giuridico, ma anche in molti casi nell’uso quotidiano. Perché voler sollevare un polverone, ora, e dire: bando alle ipocrisie e agli utilizzi illegittimi (illegittimi per chi?), si torni a zingaro?
La sensazione è che si faccia un gran parlare di rom (pardon, di zingari) anche quando non ce ne sarebbe il bisogno (illuminante, in questo senso, una ricerca sulla rappresentazione mediatica dei rom condotta dalla Ong Naga di Milano nel 2013). Vi è, nello specifico, una richiesta della società, della comunità nazionale dei parlanti, per mettere al bando la parola rom? Vi è un problema di ambiguità, di corto-circuito semantico, o di economia del codice linguistico, che va affrontato, risolto? Da linguista – ma potrei sbagliarmi – mi pare proprio di no, almeno nel caso specifico.
Semmai, i problemi legati agli zingari sono ben altri, e riguardano soprattutto gli atti di razzismo che questi devono costantemente subire, come copiosamente ci ricorda la cronaca recente a proposito della violenza degli esponenti di Forza Nuova che hanno impedito ad alcuni bambini rom di frequentare un asilo, nei pressi di Roma. O a proposito di autobus “separati” (Borgaro Torinese).
O ancora, riguardo a due bidelle rom che hanno subito l’ostracismo dei genitori degli alunni di una scuola solo in base alla loro appartenenza (in provincia di Cagliari). Per non parlare della squallida pubblicità che si è recentemente fatto Salvini a spese degli abitanti di un insediamento rom nel bolognese.
L’emergenza, quindi, esiste: ma è un’emergenza sociale, di rigurgiti razzisti preoccupanti, di ricerca del solito capro espiatorio, di esponenti politici che gettano benzina sul fuoco solo per tornaconto elettorale, di emarginazioni non sanate, di ignoranza generale sugli zingari e di rappresentazioni distorte delle loro complesse realtà. E questa emergenza richiederebbe un’urgente azione da parte dello Stato (tanto per dirne una: dove erano le forze dell’ordine, quando davanti a quell’asilo Forza Nuova stava forzando la democrazia e rendendo carta straccia la Costituzione?).
Se c’è un’urgenza linguistico-comunicativa, è semmai quella di chiedere con determinazione ai mezzi di comunicazione – come da anni sta tentando di fare l’Associazione Carta di Roma – un’informazione finalmente equilibrata, priva dei soliti stereotipi, senza titoli urlati, senza digressioni banali e generalizzate, senza argomentazioni fallaci e quindi zoppe.
Inoltre, e mi permetto di suggerirlo a Ceronetti da linguista, si parva licet, che la lingua non è una questione privata. Che anche ammettendo una libertà linguistica che fa del parlante un soggetto storicamente attivo, responsabile, creativo, originale, inmdividuale, la lingua vive di convenzioni: altrimenti nessuno rispetterebbe la grammatica, nessuno si curerebbe dell’ortografia, ognuno utilizzerebbe il proprio idioletto individuale con buona pace degli altri.
Tra queste convenzioni ci sono anche quelle legate al significato dei termini e delle espressioni – e in particolare alle loro connotazioni, parlando di lingua comune e non settoriale. Quei significati, quelle connotazioni sono ormai lì, inscritte nel codice: inutile negarlo, magari appellandosi – come si fa spesso quando si parla ad esempio della parola negro – a una presunta neutralità etimologica, o ad eruditi solipsismi. Sì, certo, alla fine del Quattrocento zingari (zingani, e altre varianti: rimando alla sintesi contenuta nel capitolo Le calunnie etniche pubblicato ne Le cultura italiana – vol. 2: Lingue e linguaggi, a cura di Gian Luigi Beccaria, 2009, Utet) era nome per etichettare una popolazione nuova, che non si conosceva. E di fronte a un referente nuovo (una nuova popolazione), ci si sbizzarrì coi significanti, come ricorda giustamente Ceronetti. Ma oggi – ripeto oggi, non nel Quattrocento – quali connotazioni associa il parlante medio (non il colto opinionista de “La Repubblica”) – alla parola zingaro?
E poi, che cosa intendiamo per zingaro? C’è un significato generalmente condiviso per questa parola? Possiamo davvero trovare un solo termine, unificante, per designare un insieme di persone (circa 160.000, in Italia) che è giunta nella Penisola in epoche diverse, da luoghi diversi, svolgendo mestieri diversi, interagendo con le comunità locali in modi diversi? Se invece intendiamo zingaro come sinonimo di nomade, i dati ci dicono che siamo fuori strada: solo una minoranza dei rom che vivono in italia sono nomadi, e non stanziali. Se pensiamo che zingari identifichi una popolazione apolide, dimentichiamo che gran parte degli zingari italiani hanno passaporto italiano: sono italiani a tutti gli effetti (e quindi, perché dover sottolineare che sono zingari? Non basterebbe “italiani”? O meglio, che bisogno c’è di specificare, se l’informazione non è pertinente?). Se associamo a zingari una lingua, il romanì o romanes, allora sarebbe più corretto usare rom, da cui il nome della lingua proviene.
Ora, usare rom non ci fa essere, per definizione, più esaustivi o corretti (sia lessicalmente sia “politicamente”). Ma rom, di solito, non compare in espressioni come “sporco rom”, “romaccio”, “rom di merda” (mentre zingaro sì: e questa fissità nelle polirematiche è indicativa di una serie di connotazioni negative assunte storicamente dal termine). E poi rom è accettato spesso dalle persone che così si sentono chiamare (zingari lo è solo parzialmente, e a differenza di rom non è un autònimo) mentre nomadi è – a ragione – rigettato perché semanticamente scorretto in gran parte dei casi.
Ancora: in base a che cosa dovremmo eliminare rom a favore di zingaro? In base alla sola auctoritas ceronettiana? Eppure, retoricamente, rivendicando questa proposta Ceronetti commetterebbe proprio una fallacia di autorità: ovvero quella di basare la propria argomentazione su un’autoctoritas autoreferenziale, non riconosciuta per quell’argomento specifico (se non dall’autore stesso). Ognuno di noi potrebbe dire: posso argomentare pro/contro tutti gli zingari perché nella vita ne ho conosciuto qualcuno. Io da bambino, ad esempio, giocavo spesso a pallone con Giacomo, uno zingaro che viveva stanzialmente nella piccola frazione del comune di Cuneo in cui abitavo io. Quella sola esperienza potrebbe fare di me un’auctoritas per dare giudizi generali su rom, sinti o zingari che dir si voglia?
E se invece, per una volta, La Repubblica, e gli altri media, provassero a chiedere opinioni ad auctoritates meno opinabili (esistono accademici ed intellettuali zingari), a chi lavora sul campo, a chi nei cosiddetti “campi” ci vive? E se forse, per una volta soltanto, si provasse a chiedere a queste persone come diavolo vogliono essere chiamate?