Succede che le contraddizioni, vere o apparenti, popolino le nostre vite. Se vite italiane, un po’ di più.
Parlare di fotografia, educare alla fotografia, guidare alla lettura della fotografia, è cosa buona e giusta o totale perdita di tempo?
Sembra, messa così, una domanda pleonastica, ma a guardare la realtà schizofrenica che si presenta non lo è poi così tanto.
Se la fotografia è in grande crisi dal punto di vista professionale, per contro non ha mai conosciuto momenti d’interesse culturale paragonabili a quelli presenti.
Si sommano i paradossi: da una parte in molti colpevolizzano la rete e la tecnologia come “assassine” del mestiere di fotografo, ma è innegabile che proprio la loro diffusione orizzontale è alla base di un interesse più diffuso di prima: anche per la legge dei grandi numeri, se ogni cento adolescenti che si fotografano l’ombelico con lo smartphone per condividerlo sui social anche uno solo di loro va oltre, s’incuriosisce, approfondisce, ecco che nasce un nuovo pubblico attento alla fotografia.
Tra le ricadute di questo allargato “bacino d’utenza”, un proliferare ovunque di corsi, scuole di fotografia, workshop, insomma di offerta formativa per soddisfare questo “nuovo popolo della fotografia”. Circoli, associazioni, amministrazioni locali, biblioteche, parrocchie e privati propongono occasioni per avvicinarsi al linguaggio fotografico, sia in senso teorico che in senso pratico. Conoscere meglio i meccanismi della visione, della percezione, della comunicazione, della composizione, della narrazione per una nuova, indispensabile consapevolezza: quando, centinaia di volte al giorno, “inciampiamo” in una foto, che senso ha tutto questo, e cosa passa attraverso quelle foto?
Bene, finalmente i volenterosi possono trovare strumenti formativi (anche se non sempre all’altezza) per cominciare a distillare dal rumore visivo di fondo che avvolge le nostre vite ciò che rende la fotografia, ancora, un modo unico di raccontare. Possibilità, pare, quasi del tutto accantonata da chi dovrebbe giovarsene, le pagine dei giornali.
E poi. E poi, contemporaneamente, una tematica così attuale, bruciante, ineludibile, pervasiva, cruciale, sociale e politica, è totalmente rimossa dalla scuola italiana, laddove sarebbe proprio questa a doversene occupare in primis. E’ quel giovane su cento che vuole approfondire a decretare l’attuale fermento attorno alla fotografia, ma gli altri novantanove, che nulla colgono di un’immagine se non la superficie, sono così “visualmente perduti” anche perché forse nessuno, quando abitavano un banco di scuola, ha per esempio sfogliato una rivista insieme a loro, chiedendogli: “Cosa vedi?”.
Nella scuola primaria esiste una “educazione all’immagine” – che suona bene – tesa ad avvicinare i bambini al mondo dell’arte (cosa sacrosanta), non entrando però nello specifico della comunicazione nei media con tutte le relative ricadute sociali, a cominciare dai modelli di vita imposti per arrivare alla manipolazione dell’informazione.
In geniale controtendenza, nella scuola statale non si parla delle immagini, della loro decodifica, del loro ruolo nelle nostre vite; e pensare che chi la scuola frequenta è proprio chi d’immagini e nelle immagini vive maggiormente.
Negli anni ’60 la Rai, che servizio pubblico era più di oggi, s’inventò Non è mai troppo tardi, trasmissione affidata al mitico maestro Manzi con la scopo di combattere, via tubo catodico, il dilagante analfabetismo; molti italiani impararono così, senza essere mai andati a scuola, a leggere e scrivere.
Oggi, in Italia, c’è una forma altrettanto diffusa e devastante di analfabetismo: quello visivo.
E visto che chi dovrebbe accorgersene e provvedere non lo fa, non ci resta che confidare in un nuovo maestro Manzi degli occhi.