Sono anni che leggo i puntuali rapporti Censis con un misto di interesse e fastidio. Interesse: perché in questi anni i rapporti sulla realtà della società italiana sono gli unici a raccontarci come stanno veramente le cose, al di là degli slogan della politica. Ma anche profondo fastidio: perché le analisi della società italiana fatte dal Censis, e dal suo presidente Giuseppe De Rita, vengono servite sempre insieme a una interpretazione morale e spesso anche moralistica che poco dovrebbe entrare con qualsiasi ricerca scientifica, come uno dei fondatori della sociologia moderna, Max Weber, spiegava nel suo Il significato della avalutatività delle scienze sociologiche ed economiche.
In questi anni ci siamo sorbiti, invece, ammonimenti sul soggettivismo dilagante, sulla mucillagine sociale, sull’individualismo che ha pervaso la società italiana, oltre che lezioni sul lavoro condite da esaltazioni della flessibilità, che Giuseppe De Rita spesso e volentieri impartiva – anche tramite le decine e decine di interviste a giornali – proprio facendo riferimento alla sua numerosa famiglia e ai suoi figli “precari” eppure allegri e fecondi come non mai.
Sarebbe interessante sapere se la precarietà della sua numerosa prole coincida con quella di milioni di giovani italiani: e cioè non contratti a tempo determinato però con stipendi alti proprio dovuti al carattere transitorio del contratto – così dovrebbe essere,in un paese normale – ma co.co.co a poche migliaia di euro l’anno per i più fortunati, oppure lavori a partita Iva senza tutele di nessun tipo e con entrate talmente basse che spesso costringono chi la partita Iva l’ha aperta a chiuderla. Insomma la precarietà nera, quella che non ti consente di alzare la testa dalla bruta necessità, quella che, se non hai una famiglia alle spalle, ti fa diventare veramente povero e disperato. E soprattutto impossibilitato a farli, i figli.
Ciò che sappiamo per certo, invece, è che mentre venivano snocciolati i dati dell’ultimo rapporto Censis, sulla società italiana in crisi, sulle imprese soffocate dalla crisi, sull’incertezza e le paure dilaganti, il figlio di Giuseppe De Rita succedeva al padre, divenendo direttore generale della Fondazione. Un fatto che in qualunque paese del mondo sarebbe apparso anomalo, così come il fatto che lo stesso De Rita padre sia stato presidente per trent’anni. Il Censis come una monarchia.
Ma ciò che è ancora più strabiliante è la risposta data a il Fatto che gli ha chiesto se non vedesse un eclatante conflitto di interesse in questa successione dinastica. Anzitutto, il tono – irato e arrogante – e il linguaggio, persino volgare, insieme alla richiesta alla giornalista di fare domande pertinenti, come se la domanda non lo fosse. Ma soprattutto le argomentazioni: non ci sarebbe conflitto di interesse perché suo figlio è il migliore. Ma il migliore tra chi? C’è stato un concorso, un qualche tipo di gara? No, è il migliore perché lo dice suo padre quale, dopo aver detto che suo figlio è stato eletto dal Cda (che difficilmente poteva eleggere un candidato contro il presidente), si contraddice quando afferma: “Giorgio ha fatto un’ottima carriera, dove trovavo un altro con il suo curriculum? Dovevo chiamare una società di cacciatori di teste per farmi portare uno che non ha quel tipo di esperienza?”. Confermando così di essere stato lui a decidere.
Il Censis è una “Fondazione riconosciuta con Dpr n. 712 dell’11 ottobre 1973, anche grazie alla partecipazione di grandi organismi pubblici e privati”, come si legge sul sito. Ci si chiede come mai non ci sia un codice etico, così come norme che vietano incarichi a vita e successioni tra padri e figli. Ma la domanda fondamentale resta un’altra: cosa dovrebbe pensare un comune cittadino italiano quando chi fa indagini sul presunto individualismo amorale degli italiani si comporta in questa maniera, assolutamente inopportuna e manifesto esempio di familismo, e non certo morale? Sgomenta poi che per ogni padre pronto a piazzare suo figlio, ci sia un figlio pronto ad essere piazzato. Magari, tra trent’anni, farà succedere a se stesso suo figlio. Chi può dire che non sia il migliore? E se la logica è questa, si potrebbe continuare con l’intera stirpe dei De Rita, perché no? Già, perché no?