Il prossimo 7 dicembre compirà 86 anni ma Noam Chomsky resta, per la sua costante critica al modello economico neoliberista e alla politica estera degli Stati Uniti d’America, uno dei nemici più tediosi “dell’Impero a stelle e strisce”. In realtà a livello accademico è apprezzato soprattutto come linguista tanto che è considerato uno dei maggiori autori ad aver contribuito alla linguistica teorica del secolo scorso.
Tuttavia, egli è riconosciuto come uno degli intellettuali militanti più ascoltati a livello globale. Questo soprattutto per la mole di pubblicazioni che, solo nel nostro Paese, superano le cinquanta. Pubblicazioni realizzate prevalentemente da piccole o medie case editrici note per la critica a quell’industria culturale che Chomsky più volte ha denunciato. In particolare negli Usa i suoi scritti sono pubblicati da editori e imprese collettive specializzate in testi militanti. Questo è un aspetto importante, infatti è imbarazzante l’incoerenza di molti intellettuali che si oppongono al “Sistema” ma poi editano (così di fatto sovvenzionandolo) con quei grandi gruppi editoriali che ne sono espressione.
Linguaggio e Politica e La natura umana. Giustizia contro potere sono due tra le ultime pubblicazioni che non dovrebbero sfuggire all’attenzione di coloro che coltivano uno spirito critico. In particolare il secondo, è un testo meno divulgativo rispetto ai tanti prodotti sotto forma di intervista o come contenitori di trascrizioni di sue conferenze in giro per il mondo. Tuttavia, a coloro che non conoscono ancora Chomsky, o vogliono approfondire il suo pensiero, credo sia indispensabile leggere le oltre 500 pagine di Capire il potere, un’opera che racchiude idee espresse in più incontri.
Capire il potere è un’opera che ho iniziato a leggere sull’aereo per New York e che ho terminato in un parco dinanzi alla Casa Bianca. Il Patriot Act di George Bush era al pieno delle sue funzioni. Prima di partire dovetti, all’ambasciata Usa, lasciare le impronte digitali, portare una copia di atto d’acquisto della mia casa e rispondere ad un militare a domande tipo: Cosa ne pensi degli Usa? Durante il viaggio in autobus da New York a Washington le parole di Chomsky mi sono sembrate meno massimaliste quando l’autista mi ha intimato a non effettuare riprese con la telecamera. Al mio rifiuto mi disse che non mi poteva obbligare a spegnere ma se mi avesse visto la Polizia avrei dovuto trascorrere diverse ore a rispondere del perché facessi delle riprese all’autostrada.
Il merito di Chomsky è aver sempre denunciato la retorica dei vari governi Usa, indifferentemente dalle amministrazioni repubblicane e democratiche. La sua è una visione del tutto alternativa a quella ufficiale, a partire dalla crisi dei missili di Cuba alla guerra in Iraq.
Una guerra che Chomsky reputa abbia destabilizzato il Medio Oriente fomentando il radicalismo. A istigare erano state in precedenza le parole di Madeleine Albright, l’allora ambasciatrice americana alle Nazioni Unite e poi segretario di Stato americano, che alla domanda in cui le si chiedeva se ne fosse valsa la pena che 500.000 bambini iracheni fossero lasciati morire a causa delle sanzioni economiche inflitte dagli Usa, rispose: “Penso che questa sia una scelta molto dura, ma il prezzo, pensiamo che il prezzo ne valga la pena”.
L’Iraq non si piegò alle sanzioni continuando a mantenere nazionalizzati i pozzi petroliferi e per questo fu bombardato usando come pretesto la menzogna delle armi di distruzione di massa. Armi mai trovate. A differenza dei giacimenti di petrolio che subito finirono sotto il controllo delle multinazionali Usa.
Ora si teme che l’Isis possa appropriarsi dei giacimenti. A lanciare l’allarme è stato anche Dick Cheney (ex vice presidente e membro della multinazionale del petrolio Halliburton) che quest’estate è tornato a parlare dicendosi preoccupato per i pozzi petroliferi iracheni. Lui che dichiarò più volte che non c’erano dubbi circa la presenza delle armi di distruzione di massa in Iraq.
Chomsky resta la principale coscienza critica di uno dei Paesi più affascinanti per la sua natura e per il suo tentativo di rendere le differenze un valore. Ne vale la pena leggere le sue opere, perché capire la politica estera Usa senza il velo dell’addomesticata fabbrica del consenso significa conoscere anche la direzione del nostro Paese, da sempre in sua scia ed incapace di produrre una politica estera e culturale indipendente.