Il quadro generale
Storicamente, l’Europa è stata una delle Parti più attive nell’intraprendere misure di riduzione delle emissioni nell’ambito della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (Unfccc).
Recentemente, l’Ue è stato l’unico blocco a raggiungere il proprio obiettivo per il Primo Periodo d’Impegno del Protocollo di Kyoto, che corrispondeva ad una riduzione del 20% delle emissioni entro il 2012 rispetto ai livelli del 1990; nel corso della Cop18 di Doha, questa percentuale è stata solo confermata, senza alcun incremento, come target per il Secondo Periodo d’Impegno.
A partire dal 2013, tuttavia, l’Ue ha gradualmente revisionato la propria posizione: dal pacchetto 20-20-20 approvato nel 2008 per la riduzione delle emissioni, la produzione di energia da fonti rinnovabili e l’incremento di efficienza energetica, il Parlamento Europeo ha proposto successivamente un aumento, rispettivamente, al 40-30-40, forse sottovalutando gli ostacoli che sarebbero emersi sia dalla Commissione che da alcuni Stati Membri, i quali hanno dato vita a diatribe interne nel percorso verso l’adozione dell’Eu Climate and Energy Policy Framework to 2030.
La maggior parte dei paesi era concorde nell’avere un obiettivo vincolante per la riduzione delle emissioni, ma alcuni erano in disaccordo nella definizione del numero di target fra uno, due o tre. Il compromesso è stato raggiunto con il pacchetto finale 40-27-27, meno ambizioso e caratterizzato da un obiettivo di efficienza energetica non vincolante.
Decisioni nel corso del semestre di presidenza italiano
L’adozione del Policy Framework ad ottobre è rientrata nel corso della Presidenza italiana del Consiglio dell’Unione Europea.
La complicazione delle negoziazioni è spiegabile con il fatto che per alcuni Stati Membri, in particolare quelli che fanno del carbone la fonte energetica primaria, accettare un simile pacchetto è significato sostanzialmente rivedere per intero il proprio sistema economico. Non è un segreto, infatti, come alcuni paesi (soprattutto dell’Europa dell’est) abbiano negoziato intensamente per ottenere trattamenti speciali, come l’estensione delle allocazioni gratuite di Ee-Ets oltre il 2020, o l’istituzione di un fondo speciale per interventi di efficienza energetica, destinato ai paesi con Pil inferiore al 60% della media Ue.
Inoltre, la Presidenza italiana ha dovuto fare i conti con la ratifica del “Doha Amendment”, outcome della Cop18 di due anni fa in cui è stato aggiunto il Secondo Periodo d’Impegno del Protocollo di Kyoto (Cp2).
Affinché possa entrare in vigore, deve essere concordato da tutte le Parti (aderenti) e, ancora prima, passare la ratifica da parte di almeno ¾ di esse. Ad oggi, solo 21 paesi nel mondo hanno ratificato l’Amendment e l’Ue, con i propri Stati Membri, non è ancora annoverata fra essi.
Ciò non rappresenta necessariamente un problema insormontabile, in quanto il Secondo Periodo d’Impegno è praticamente vuoto; oltre al target già raggiunto dall’Ue, infatti, gli obiettivi al 2020 dei paesi partecipanti al CP2 sono:
– Australia: -0.5% (!) (2000)
– Bielorussia: -12% (1990)
– Kazakistan: -5% (1990)
– Liechtenstein: -16% (1990)
– Monaco: -22% (1990)
– Norvegia: -16% (1990)
– Svizzera: -15.8% (1990)
– Ucraina: -24% (1990)
(anno di riferimento)
In sostanza, sarebbero coperte solo il 15% circa delle emissioni globali.
Per questa ragione la maggior parte delle discussioni sui livelli di ambizione pre-2020 avvengono oggi nel Workstream 2 della Durban Platform (Adp), la piattaforma negoziale che si occupa del nuovo accordo globale; proprio ieri sera, alla Cop20 di Lima, si è giunti alla discussione di questi temi, fra gli ultimi nell’agenda Adp.
Altre questioni affrontate negli ultimi mesi sono state la sicurezza energetica e lo sfruttamento del gas, centrale sia nel Policy Framework europeo che nel Jobs Act italiano. Nei prossimi anni, l’Italia e l’Europa molto probabilmente incrementeranno lo sfruttamento del gas per proseguire nei rispettivi processi di de-carbonizzazione e rispettare gli obiettivi a lungo termine posti dell’Ipcc: -80% nel 2050 e -100% (forse un po’ utopistico) alla fine del secolo. Sarebbe tuttavia necessaria maggiore chiarezza, sia da parte dell’Italia che dell’Ue, per capire se la scelta di puntare sul gas sia considerata come uno step intermedio verso uno sfruttamento sempre maggiore delle rinnovabili o come una politica a lungo termine; c’è un mondo di differenza, o un oceano di emissioni, nel mezzo.
Infine, il Green Climate Fund (Gcf). Attualmente sembra essere strutturato in modo da avere mitigazione e adattamento al 50-50. Ad oggi, l’Unione Europea è il maggior contribuente al Gcf con donazioni complessive che ammontano a 4.6 miliardi di dollari, sui circa 9.95 miliardi totali.
Per alcuni Stati Membri si tratta del primo grande contributo ad un simile meccanismo finanziario; l’Italia ha contribuito con circa 250 milioni di euro, posizionandosi al settimo posto per donazione assoluta ma all’ultimo considerando il livello pro-capite. Non il massimo, certamente, ma neanche un provvedimento trascurabile in tempi di crisi.
Costruire un accordo globale, equo e ambizioso
Le discussioni nell’Adp includono gli Elementi e i cosiddetti Indcs. Gli Elementi costituiscono la base su cui verrà costruito il nuovo accordo, ed includono la questione dell’equità. Come sarà gestita nel nuovo accordo? Attualmente, l’Ue sembra intenzionata a portare avanti un approccio comprensivo, continuando a considerare il principio delle responsabilità storiche senza escludere l’idea di abbracciare principi più ambiziosi quali l’equità intergenerazionale, già presente nel testo della Convenzione ma rimasta in disparte negli ultimi vent’anni. Come si riuscirà a far coesistere due approcci tanto diversi? La soluzione più realistica sembra quella di rendere più dinamico un terzo grande principio presente, ovvero quello delle responsabilità comuni ma differenziate sulla base delle rispettive capacità (Cbdr-Rc), in modo da considerare sia le generazioni presenti che quelle future.
La seconda componente necessaria per colmare il gap fra gli impegni attuali, insufficienti, e gli obiettivi a lungo termine imposti dalla scienza è il superamento dell’attuale schema-Annex. Con il Cp1 del Protocollo di Kyoto, solo i paesi considerati come “sviluppati” nel lontano 1992 erano soggetti ad obiettivi vincolanti di riduzione delle emissioni; questo approccio, tuttavia, ha in buona parte deluso le aspettative ed oggi ne appare inevitabile ed imprescindibile una revisione.
Infatti, oltre agli Stati Uniti (che non hanno mai ratificato Kyoto) non fanno parte del gruppo Annex-1 paesi come la Cina e l’India, oggi rispettivamente primo e terzo paese con le maggiori emissioni al mondo.
Gli Indcs sono i nuovi contributi nazionali che verranno proposti dai paesi per il nuovo accordo globale atteso l’anno prossimo a Parigi. Due le principali differenze fra gli Indcs ed i target di Kyoto: saranno bottom-up, ovvero determinati a livello domestico invece che imposti a livello internazionale; coinvolgeranno tutti paesi, sia quelli sviluppati che quelli in via di sviluppo.
L’Europa ha avanzato il proprio obiettivo di almeno un 40% di riduzione delle emissioni nell’ambito del pacchetto al 2030, ma i rumor confermano che la divisione fra gli Stati Membri di questo target non avverrà prima della Cop21 di Parigi, quindi a partire dal 2016.
Inoltre, è ampiamente riconosciuto come l’Europa veda di buon grado all’interno degli Indcs solo misure di mitigazione, e non, ad esempio, di adattamento; quest’ultimo è comunque ritenuto fondamentale, come provato dalla recente adozione dell’Ee Adaptation Strategy, ma date le difficoltà nel contabilizzare questo settore, si preferisce implementarlo in un percorso parallelo.
Infine, particolarmente controversa è la definizione della durata del Periodo d’Impegno del nuovo accordo. L’Ue supporta, assieme alla Cina e ad altri paesi, un periodo di 10 anni dal 2020 al 2030.
La società civile ha duramente criticato questa posizione, argomentando come un periodo così lungo comporterebbe necessariamente livelli di ambizione più bassi. Una divisione in due periodi da 5 anni, invece, lascerebbe aperta la possibilità di definire nuovi target più elevati dal 2025, anche alla luce dei futuri nuovi rapporti scientifici e progressi tecnologici che saranno disponibili.
Supportare i Peasi più vulnerabili, subito
Quali paesi dovrebbero essere considerati “vulnerabili”, e quali no? Come si potrebbero quantificare i danni, e come si potrebbe valutare se un evento catastrofico si sarebbe verificato ugualmente, anche senza il cambiamento climatico? Infine, pur accettando che ne sia proprio il climate change la causa, come si potrebbe definire la porzione di danni dovuta al fenomeno, e quella dovuta alla negligenza delle amministrazioni locali nella gestione e protezione delle infrastrutture?
Per via di tutti questi punti interrogativi, la posizione dell’Ue è piuttosto contraria allo sviluppo del meccanismo di compensazione “Loss&Damage” come terzo blocco da affiancare a mitigazione e adattamento. Ciononostante, è indispensabile trovare una via alternativa per supportare i paesi che stanno già oggi subendo eventi estremi, incrementati in intensità e frequenza dal cambiamento climatico. Ci sono isole che stanno sparendo, paesi sempre più frequentemente colpiti da alluvioni ed uragani; per tutti loro, Parigi potrebbe davvero essere l’ultima chiamata.
di Federico Brocchieri