Le hanno già soprannominate le Kardashian della Chiesa cattolica. Liti, domande provocatorie, grida e donne sull’orlo di una crisi di nervi che piangono di fronte alla telecamera. Nulla di nuovo per l’ultimo dei reality che negli Stati Uniti fa discutere. Se non fosse che nel più moderno programma lanciato da Lifetime manca un ingrediente essenziale: gli uomini. Non ci sono nemmeno scene sconce, disinibite o serate a base di alcool e imprecazioni da bar. Tutto quel che gira attorno al peccato – nel suo significato più divino – è assolutamente bandito. The Sisterhood porta per la prima volta sugli schermi televisivi cinque ragazze poco più che ventenni nel loro percorso di fede per diventare suore.
Ballerine ai piedi, gonna fino al ginocchio, camicia a maniche corte non troppo scollata e cerchietto in testa. Poi un convento con tanto di celle e orari di preghiera che le ospita tutte. Ne gireranno tre di conventi, in realtà, in sei settimane, sempre sotto i riflettori. Infine, ma non ultimi, i principi base: castità, povertà e obbedienza. Tutto bene se non fosse che Francesca, 21 anni, sbotta quando scopre di dover rinunciare al suo make-up per concentrarsi al meglio, le dicono, alla sua vita intima. Assicura che la cipria compatta le serve per coprire il suo problema di acne e si chiede perché mai Gesù vorrebbe vederla senza trucco. L’attacco di panico è dietro l’angolo. Subito dopo un’altra delle ragazze, Esseni, 23 anni, subisce due traumi: al convento le sequestrato il suo inseparabile iPhone e le rimuovono le unghie finte colorate cui tanto tiene. Chirstie invece, 27 anni, ammette di essere un’amante dei flirt e chiede con nonchalance a una delle superiori se sa cosa sia il twerking, perché lei ha imparato a farlo prima di entrare in convento. Per tutte, comunque, Gesù resta il “miglior amante” in assoluto.
Le critiche? Al momento i magazine più pop l’hanno presa piuttosto bene: su Medialife parlando di un programma “illuminante” e su Flavorwire di un “progetto sociologico amateur”. Anche il Washington Post sembra guardare al lato buono che il programma può lasciare nei cuori degli spettatori americani, subissati da sesso, bugie e parolacce. E’ la Chiesa cattolica americana invece a dividersi, subito dopo la messa in scena della prima puntata, andata in onda lo scorso 25 ottobre. Suor Cynthia, nella pagina web delle Suore della Misericordia accusa il programma di sensazionalismo. “Lo spettacolo sostiene di offrire uno sguardo sulla realtà di un convento, ma questo non è il solito processo che si fa per decidere di diventare una suora. The Sisterhood non è reale. C’è molto di più che l’impegno di rinunciare alle cose materiale o di togliere il trucco a una giovane. La chiamata di Dio deve risuonare nel profondo del cuore. Ma questo reality sembra troppo modellato dai canoni TV e da ciò che attirerà gli spettatori”. Monica Martin, una blogger francescana che scrive su Habitually Speaking, invece si mostra entusiasta. E ci scherza sopra, dicendo che i conventi sono luoghi perfetti per un docu-dramma. Ma basta dare un’occhiata alla timeline di Twitter per farsi un’idea sulle polemiche che via via si stanno generando.
Sul sito americano dell’Huffington Post è Jo Piazza, autrice del libro If Nuns run the World, per anni a contatto con monache e missionarie, a redigere un’amara conclusione: tante suore “meritano di essere delle stars”, ma non con un “tipo di programma che accende i riflettori sui pianti, i battibecchi e il melodramma. Ne abbiamo già abbastanza in tv”. Per sapere, comunque, se le cinque ragazze riusciranno a prendere i voti, basta solo aspettare che il reality sbarchi in Italia.