Riflessioni a margine dell’ultima attività iniziativa che abbiamo organizzata nella Casa di Reclusione di Rebibbia: proiezione (per gentile concessione della Bim distribuzione) del film “La Trattativa” e, a distanza di pochi giorni, incontro-dibattito con la regista e autrice Sabina Guzzanti.
Il tema dei rapporti tra Stato e mafia era a dir poco spinoso, specie se trattato all’interno di un carcere “penale” in cui ci sono molti condannati per reati associativi. La provocazione era proprio quella di parlare di mafia con chi l’ha vissuta in prima persona.
Con la totale adesione della Direzione, del Comando della Polizia penitenziaria e dell’Area educativa e trattamentale, dimostratisi ancora una volta eccezionalmente aperti a certi approfondimenti culturali, si è potuto affrontare una discussione su questioni scottanti come la gestione dei servizi segreti o di certi reparti delle forze dell’ordine, le inefficienze della giustizia e le deviazioni della politica, l’apporto di pentiti e collaboratori nella ricerca della verità e delle responsabilità.
In sostanza, all’interno della più rigida delle istituzioni, il carcere appunto, si è discusso del preoccupante cedimento che in taluni momenti hanno mostrato le nostre istituzioni, a partire dalle più alte. Nel film vengono adeguatamente documentati molti fatti oggettivamente accaduti nella nostra storia recente. È messo in evidenza il ruolo di Berlusconi e del suo partito nato proprio a ridosso delle stragi. Ora, con Mangano nella villa di Arcore e Dell’Utri a tirare le fila (entrambi condannati in via definitiva) o anche con risultati elettorali come quello che diede il 100% dei seggi siciliani a Forza Italia, è impossibile negare che Berlusconi abbia avuto rapporti con la mafia. Se non altro per una speciale sintonia dovuta al fatto di avere come nemico comune la magistratura. Si può discutere invece se il ruolo dell’ex cavaliere fosse già così rilevante allora, quando c’erano ben altri protagonisti della politica, o se piuttosto, come ha suggerito un nostro studente in un intervento, Berlusconi non sia stato un semplice “utilizzatore finale” di quella strategia.
Strategia che, vorrei sottolineare, al contrario di quanto si dica comunemente quando si parla di bombe e stragi destabilizzanti, dovremmo considerare pienamente stabilizzatrice.
Altro fatto innegabile è che il nostro Paese è rimasto per troppi aspetti fermo a quei primi anni 90. Stessi uomini nei posti chiave, con una classe dirigente ibernata o al più trasferita nelle pessime mani di congiunti e accoliti, stessi metodi della politica (con sostanziale degenerazione), stessi blocchi burocratici e amministrativi, vecchie incorreggibili disuguaglianze, rigidità e inefficienze. In un mondo in continua e accelerata evoluzione, siamo sprofondati nella più pesante crisi economica e sociale senza uno straccio di intervento con cui si tentasse seriamente di arginare gli eventi. Mentre altrove sono cresciute nuove realtà, si sono realizzati o trasformati interi quartieri, da noi non si è realizzata un’opera pubblica di rilievo e laddove ci si è provato è finito tutto in una melma maleodorante di corruzione.
Il risultato della stagione delle stragi è stato quello di dar voce ai più remissivi e fatalisti, per ribadire l’antico motto del gattopardo: cambiare tutto perché tutto restasse com’era. Ed è particolarmente devastante dal punto di vista della coesione sociale il messaggio che è passato tra i cittadini e, amplificato, tra i detenuti: non c’è niente di peggio per chi cerca quotidianamente di proporre il valore della legalità, della legge uguale per tutti fondamento basilare di ogni moderno Stato di diritto, che sentirsi ripetere la tracotante frase di un\ Sordi d’annata che, scampato a un arresto, dice al popolino: “Mi spiace ma io so’ io…e voi nun sete un ca…”.