Una ricchezza accumulata da Sud a Nord grazie “a lucrose attività criminose, rappresentante – inizialmente – da sequestri di persona a scopo di estorsione e – successivamente – dal traffico (anche internazionale) delle sostanze stupefacenti”, scrivono i giudici nel provvedimento di confisca. Un patrimonio immenso tenuto insieme fino ai numerosi arresti che hanno colpito la famiglia. È così che l’impero dei fratelli Marando è finito nelle mani dello Stato. Beni per 18 milioni di euro sono stati confiscati dalla Direzione investigativa antimafia di Torino alla famiglia della ‘ndrangheta insediata da anni a Volpiano, alleata ai Perre e agli Agresta e legata alla cosca Barbaro di Platì (Reggio Calabria). La misura è stata decisa dalla sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Torino che ha pure stabilito di mettere sotto sorveglianza alcuni imputati, tra cui l’attuale reggente Domenico Marando, detenuto in carcere a Saluzzo, e il nipote 25enne Luigi. I beni erano stati sequestrati preventivamente nell’operazione “Marcos” di due anni fa.
Secondo gli investigatori, dagli anni Ottanta in poi i Marando sono stati responsabili di sequestri di persona e traffico di stupefacenti, anche a livello internazionale, intrecciando alleanze con Cosa Nostra e con narcotrafficanti in Turchia per l’eroina e in Colombia per la cocaina. In questo modo hanno accumulato capitali i boss Francesco “Ciccio” Marando (ucciso nel 1997 a Chianocco, all’inizio di una faida raccontata dalla sua vedova Maria Stefanelli nel recente libro “Loro mi cercano ancora”) e poi Pasquale (scomparso nei primi anni Duemila per un caso di lupara bianca). Si parla di tre società, di 27 terreni (molti in Calabria) e di 33 immobili tra Marina di Gioiosa Ionica, Volpiano, Cesano Boscone e Busto Arsizio. C’è pure una villa con piscina e un giardino immenso a Nettuno.
I Marando coi soldi ci sapevano fare anche grazie agli aiuti forniti da professionisti come un geometra, Cosimo Salerno, pure lui colpito dalle confische e dalla sorveglianza speciale. A “occuparsi” dei fabbricati c’erano poi alcune aziende tra cui due società offshore basate a Gibilterra e una, la Green Farm di Torino, per alcuni anni gestita da un prete, padre Mario Loi (conosciuto come “Padre Rambo”), “testa di legno” di Pasquale Marando e “schermo ideale in quanto sacerdote e figura quindi al di sopra di ogni possibile sospetto”. Buona parte del denaro contante invece veniva nascosto nelle banche svizzere grazie a un avvocato di Lugano, Francesco Paolo Moretti.
Il sistema, però, si è inceppato. È successo dopo la morte di Francesco, dopo le vendette che hanno portato alla condanna di Domenico e dopo la scomparsa di Pasquale. I fratelli rimasti vogliono spartirsi il bottino. Da una parte, chiuso in cella, c’è Domenico, dall’altra i fratelli rimasti liberi, Nicola e Rosario, che si sarebbero appropriati del patrimonio di Pasquale. Di mezzo una serie di fiancheggiatori (come un’educatrice del carcere) e le nuove generazioni che iniziano a darsi da fare. Infine c’è Rocco, “considerato alla stregua dell’ultima ruota del carro familiare”, osservano i magistrati. Emarginato nella spartizione e preoccupato per le sue sorti, quest’ultimo decide di collaborare con la giustizia spiegando la gestione degli affari e il contrasto tra Domenico e gli altri due, contrasto emerso pure nell’intercettazione di un colloquio in carcere l’8 novembre 2007 tra Domenico, il figlio Antonio e il nipote Luigi, figlio di Pasquale allora appena maggiorenne. Proprio questo ragazzo, ora 25enne, è “fortemente inserito nell’ambiente criminoso di appartenenza, tanto da seguire gli affari di famiglia”. Di questo ambiente “ha condiviso pienamente le logiche e si è fattivamente impegnato per conseguirne i traguardi”, annotano i giudici che lo ritengono un “soggetto dotato di pericolosità sociale” e lo sottopongono a tre anni di sorveglianza speciale.
A differenza di quanto sostenuto da altre sentenze, Rocco Marando è ritenuto un pentito attendibile per la “conoscenza approfondita delle vicende criminose”. Non lo era per i giudici del maxiprocesso “Minotauro” che negarono l’esistenza di una locale di ‘ndrangheta a Volpiano e assolsero Rosario Marando dall’accusa di 416 bis. A Rosario (condannato all’ergastolo in primo grado per gli omicidi della faida contro gli Stefanelli, ma libero) e a Domenico è andata relativamente bene anche nel processo penale nato dall’operazione “Marcos” della Dia: hanno avuto condanne più lievi perché in certi episodi avrebbero commesso “autoriciclaggio”, reato all’epoca non punibile e approvato definitivamente in Parlamento soltanto pochi giorni fa.