Sabino Cassese viene percepito, giustamente – e non da oggi – come un’autorità morale da chi ha seguito o studiato la cultura politica italiana almeno dagli anni Sessanta del secolo scorso. E’ considerato da allora uno dei massimi esperti di diritto pubblico e amministrativo anche a livello internazionale, faceva parte del gruppo di cervelli messo insieme da Enrico Mattei all’Eni, ha lavorato con Antonio Giolitti alla programmazione economica nei primi governi di centrosinistra, è oggi un autorevole giudice costituzionale… Insomma, uno studioso impegnato, universalmente apprezzato e stimato. Tanto che è tra i pochi prestigiosi candidabili non-politici alla Presidenza della Repubblica, dopo la prevista, imminente fine dell’era-Napolitano.
E’ a lui che il Corriere della Sera ha affidato l’editoriale domenicale sul “lato debole dei partiti liquidi”, riemerso con forza negli ultimi tempi: “minacce di scissioni, richiami alla disciplina interna, invocazione della libertà di coscienza, richieste di maggiore democrazia”. E qui Cassese avrebbe potuto citare, insieme alle tensioni interne ai partiti, il marcio emerso con la cosiddetta “Mafia Capitale”, ma anche a Milano, a Venezia, nei consigli regionali, ecc. ecc., quale elemento indubbiamente addebitabile anch’esso alla cosiddetta “liquidità” dei partiti (pur fatta passare, nell’ultimo ventennio, come virtù salvifica del sistema partitico insieme alla logica “maggioritaria”).
“I partiti stanno perdendo la loro base”, rileva logicamente Cassese, “gli iscritti si sono dimezzati in mezzo secolo, e continuano a diminuire, mentre la popolazione è aumentata; si allarga, quindi, la forbice tra iscritti e votanti. Anche questi ultimi diminuiscono: segno sia di sfiducia nei partiti, sia del fatto che il sistema politico italiano si è allineato alle altre democrazie mature”. Ci sarebbe però molto da dire su questa storia dell’asserita virtuosità del calo dei votanti che ci avvicinerebbe ad altre democrazie avanzate: una storia raccontata, prima che da Cassese, dai protagonisti recenti della nostra vita politica, per mettere una toppa sullo strappo causato dalla loro progressiva lontananza dagli interessi dei cittadini e dallo stesso mandato degli elettori. Basti dire che allinearsi alle altre democrazie mature non può significare farlo solo per un aspetto o per un solo elemento del complesso fenomeno politico-elettorale, e che una cosa è registrare un cospicuo fenomeno astensionista in una democrazia “matura” e un’altra è registrarlo in una democrazia non matura, o marcia o acerba…
La liquefazione dei partiti, continua Cassese, “li trasforma in aggregazioni elettorali, attive al momento del voto. Lo stesso séguito elettorale si organizza volta per volta, con travasi di voti da un partito all’altro. Questo trasforma la lotta elettorale da guerra di posizione in guerra di movimento, aumenta l’importanza del ‘mercato politico’, consente ai partiti di uscire dai loro fortini e di andare oltre il proprio elettorato tradizionale, ma correndo maggiori rischi. I partiti sono meno rigidi, meno chiusi. Minacciano meno la democrazia a causa del loro carattere autocratico ed oligarchico…”. Ma questo il prof. Cassese avrebbe dovuto e dovrebbe forse spiegarlo meglio ai suoi lettori, specie se suoi estimatori.
C’è da chiedersi: è proprio vero che i partiti una volta sarebbero stati più “rigidi e chiusi” degli attuali? Erano a carattere più “autocratico ed oligarchico” degli attuali? I nuovi partiti “minacciano meno la democrazia”? In realtà, a parte il Pci con il suo “centralismo democratico” (che pure riuscì, di fatto, a dare rappresentanza e a farsi riconoscere in questa funzione democratica dalla stragrande maggioranza del popolo della sinistra e dei lavoratori italiani), i partiti di una volta come il Psi, il Psdi, il Pri, il Pli e come la stessa Dc appaiono oggi decisamente e inequivocabilmente meno autocratici ed oligarchici degli attuali partiti “fluidi”, e sostanzialmente meno “rigidi e chiusi” (si pensi solo allo stato di irrilevanza in cui Renzi è riuscito a ridurre, persino al vertice, i rappresentanti più veraci della base del Pd).
Appare poi paradossale, anzi inverosimile, che il partito dominato da Renzi e il partito proprietà di Berlusconi – per non parlare degli altri, dei partiti personali di Casaleggio, di Vendola, di Pannella, ecc. – possano essere considerati meno minacciosi per la democrazia rispetto ai partiti-piramide di Moro e Andreotti, di Berlinguer e dello stesso Craxi, fondati sulla elaborazione dal basso della politica e della classe dirigente, a partire dalla vita di sezione e di cellula sindacale, per proseguire a livello cittadino, poi di comitato provinciale, poi ancora di dirigenza regionale, per approdare ai comitati centrali, alla direzione nazionale, alla segreteria, agli stessi congressi nazionali… Certo, negli anni Ottanta – e per iniziale spinta di Craxi – quella piramide cominciò a venir meno. Ma proprio allora cominciarono a prendere consistenza, appunto, la personalizzazione della politica, il leaderismo, l’iper-centralizzazione decisionale, il partito liquido, il partito-comitato elettorale, ecc. ecc..
Il moderno Principe, ricorda Cassese, “ha due funzioni, quella di formazione politica della società e quella di scelta della rappresentanza parlamentare. La destrutturazione in corso dei partiti politici li fa divenire più leggeri, più capaci di conquistare maggiore seguito elettorale, ma ne indebolisce l’azione educativa e la forza selettiva. Dove potrebbe svolgersi la prima, se non esiste più la ‘scuola’ dei partiti, quella distribuita sul territorio, nelle sezioni e nei circoli, nei quali ferveva la vita collettiva del partito-organizzazione? Come possono essere selezionati gli eletti nel Parlamento e nei consigli regionali e comunali, se manca la macchina del reclutamento e della valutazione e si procede per nomina dall’alto?”. Siamo di fronte indubbiamente ad un efficace ritratto del degrado della vita politica attuale rispetto a quella funzionante, più o meno, sino agli anni Settanta. Con un altro passaggio, però, incomprensibile: dove Cassese vede, in compenso, la maggiore capacità degli attuali partiti di “conquistare seguito elettorale”? La stessa applicazione del ragionamento al singolo partito “leggero” non reggerebbe: visti gli esiti elettorali anche recenti, dei singoli partiti leggeri; considerando l’esito elettorale complessivo del sistema di partiti “leggeri”; rilevando la precarietà del grande esito elettorale di un singolo partito “leggero”, per definizione – e per esperienza consolidata – esposto a ridimensionamenti elettorali altrettanto fulminei.
Anche le conclusioni di Cassese sono problematiche, se non contraddittorie: “L’indebolimento della macchina del partito-organizzazione è forse un passo avanti per la democrazia, consente di rompere le fortificazioni erette intorno ad esso e di allargare la base elettorale, avviando la formazione di corpi politici a vocazione maggioritaria, che non debbono far ricorso a coalizioni. Ma produce anche un vuoto di educazione civica e di selezione della classe dirigente, al quale bisogna porre rimedio”.
Qui l’illustre studioso evoca la positività della “vocazione maggioritaria” e la negatività del “far ricorso a coalizioni”, esprimendo evidentemente una posizione legittima, anche se controversa per chi ritiene il proporzionale e la rappresentanza della pluralità sociale, culturale e politica la base della democrazia, e rimarca il fallimento della pretesa di ottenere “governabilità” attraverso la semplificazione della rappresentanza. Ma una cosa è incontrovertibile: l’indebolimento del partito-organizzazione non consente proprio di “allargare la base elettorale”. La restringe, professor Cassese. La restringe, riducendo complessivamente ai minimi termini, in un paese come l’Italia, la democraticità del sistema (ed anche la possibilità che possa arrivare al Quirinale un’autorità morale, invece che una figurina scelta per ossequiare il mono-potere governativo).