Sul palco centinaia di attori operai, studenti, braccianti e impiegati; di fronte a loro migliaia di spettatori operai, studenti, braccianti e impiegati. Per chi è appena uscito dalla sale di una delle attuali rappresentazioni teatrali per una platea di pochi intimi potrebbe sembrare fantascienza. Invece è realtà: artistica e storica. Italiana perlopiù. Si tratta degli anni d’oro – all’incirca dal 1949 al 1953 – in cui crebbe e raccolse successo nazionale il cosiddetto “teatro di massa”. Un genere teatrale apparso nei primi decenni del Novecento in Russia come in Francia, il cui creatore in Italia fu Marcello Sartarelli. Grazie all’idea sviluppata dall’autore romano – molti anni addietro – per la prima volta si videro i protagonisti delle lotte sociali salire sul palcoscenico o invadere gli stadi.
“Un enorme numero di persone salivano sulla scena per recitare la loro quotidianità, le vicende del lavoro, della vita proletaria, della Resistenza”
Il fenomeno, celebrato proprio in questi giorni con una giornata di studi al Dams di Bologna, si diffuse in tutto il centronord nell’ambito della politica culturale del Partito Comunista Italiano e vide esordire da registi, e organizzatori, tra gli altri, alcuni nomi del futuro firmamento cinematografico come i fratelli Taviani, Carlo Lizzani, Valentino Orsini, Gianfranco De Bosio. “Un enorme numero di persone salivano sulla scena per recitare la loro quotidianità, le vicende del lavoro, della vita proletaria, della Resistenza”, spiega al fattoquotidiano.it la docente Dams di Teatro moderno e contemporaneo, Laura Mariani, “Sartarelli veniva dal cinema e aveva capacità organizzative e soluzioni sceniche straordinarie: scenografie nuove grazie all’uso dei trasparenti, tantissimi attori in scena, abiti della quotidianità indossati sul palco, ma soprattutto era stato inventato un teatro che dando voce alle nuove forze sociali, voleva mobilitare la gente comune”. Furono diversi gli spettacoli del teatro di massa: “Stanotte non dorme il cortile” di Gianni Rodari, “Marco si sposa” di Orsini, o il più celebre, quel “Sulla via della libertà”, datato 1950, che andò in scena nel grandissimo teatro Comunale di Bologna, 14 repliche per migliaia di persone e ogni sera il tutto esaurito, dove si mise perfino in scena la celebre battaglia partigiana di Porta Lame a Bologna, con decine di “finte” comparse nazifasciste e i veri partigiani che avevano combattuto armi in pugno alcuni anni prima a pochi chilometri dal teatro: “Attraverso le sezioni del Partito Comunista si convocarono 500-600 persone negli spazi della piscina coperta di Bologna per organizzare le prove e la sera della prima arrivarono decine di corriere anche da fuori città”, racconta il regista bolognese Leonardo Leonesi, all’epoca aiuto di Sartarelli e ancora oggi autore teatrale, “Facevamo un discorso linguistico rivoluzionario. Non più atti, ma sequenze di quadri interrotte dal buio con la voce dello speaker. Era un teatro essenzialmente coreografico che rappresentava i fatti, come l’uccisione di alcune mondine durante uno sciopero con la polizia di Scelba che sparava ad altezza cintura, per un pubblico nuovo. La classe operaia doveva diventare la classe dirigente del paese secondo il Pci e aveva diritto ad uno sviluppo culturale innovativo. Per un po’ pensammo che il teatro di massa avrebbe potuto mettere in crisi il teatro tradizionale ma così non fu”.
Era un teatro essenzialmente coreografico che rappresentava i fatti, come l’uccisione di alcune mondine durante uno sciopero con la polizia di Scelba che sparava ad altezza cintura, per un pubblico nuovo. La classe operaia doveva diventare la classe dirigente del paese secondo il Pci
Il “partito” cambiò rotta e non ci credette più. Poca nostalgia però per Leonesi, ma molti ricordi legati alla concretezza di un’idea: “Io sono rimasto sul cammino tracciato allora. Ho costituito piccole compagnie di operai, studenti e impiegati. Rifacendoci per primi in Italia a testi di Brecht, o a temi come la crisi del ’29, più che aspettare il pubblico di massa dentro ai teatri, in cui lentamente i proletari non andavano più perché preferivano il cinema dove si poteva fumare e non ci si doveva vestire in tiro per la soirée, andammo a far teatro a casa loro, nelle fabbriche e nelle case del popolo”. Difficile riuscire a spiegare ad un ragazzo di oggi cosa volesse dire portare masse di spettatori a teatro per vedere rappresentata la loro vita semplice, di tutti i giorni: “Era lo spirito con cui volevamo costruire quest’idea che faceva la differenza”, continua Leonesi, “De Filippo, Strehler, Paolo Grassi cercavano il pubblico popolare, ma noi lo mettevamo dentro le sale a vagonate”. Rimane una curiosità: oggi, distrutto il ricordo del Pci, smembrato il teatro in tante piccole sperimentazioni o con la classica prosa alto borghese, si potrebbe rifare il “teatro di massa”? “Bisognerebbe mettere in scena il dramma di quella povera gente che perisce sui barconi nel Mediterraneo”, chiosa Leonesi, “oppure vista la povertà culturale di molte giovani generazioni, creata prima dalla Dc e poi dal berlusconismo, sarebbe necessario ripassare i fondamentali e mettere in scena temi di massa come la Costituzione e la Resistenza”.