Scuola

Ricerca: la riforma Gelmini quattro anni dopo e la generazione perduta

Un freddo e piovoso dicembre di quattro anni fa fu approvata la “riforma” dell’università, la cosiddetta Legge Gelmini. In seguito, due ministri vicini all’area Pd (Profumo e Carrozza) e uno appartenente a Scelta Civica (Giannini) si sono limitati a “monitorarla” senza apportare modifiche sostanziali. Qual è il bilancio attuale? Quali sono gli aspetti positivi per l’università e il paese e quali invece quelli discutibili?

Partiamo dagli aspetti positivi. C’è del buono in qualsiasi essere umano o situazione, ma in questo caso anche con notevole sforzo, non riesco a trovare qualcosa di sostanziale, almeno non tale da giustificare le promesse formulate con questa “riforma epocale”. Sarei davvero lieto di essere smentito con fatti concreti.

Ho invece l’imbarazzo della scelta per quanto riguarda quale sia l’aspetto più negativo. Opterei per l’abolizione del reclutamento di nuovi ricercatori a tempo indeterminato e la loro sostituzione con contratti a tempo definito, Rtda e Rtdb.

Che cosa è successo esattamente? Fino al 2010, era possibile entrare nell’università vincendo un concorso da ricercatore. Era un sistema perfetto? Assolutamente no, dato che era fin troppo frequente che il presidente della commissione avesse moltissime pubblicazioni in comune con il futuro vincitore e che poi i due continuassero una collaborazione. Questo fenomeno può essere definito “nepotismo scientifico“. I contratti a tempo determinato erano (e sono tuttora) gli assegni di ricerca annuali o pluriennali. La riforma Gelmini sostituisce ai ricercatori a tempo indeterminato i ricercatori a tempo determinato Rtda (tre anni) e i cosiddetti tenure track (Rtdb) che dopo valutazione positiva dovrebbero poi diventare direttamente professori associati. Gli assegnisti non possono rimanere in questo ruolo per più di quattro anni, tuttavia sono necessari tre anni di ricerca post dottorato per accedere al concorso per Rtd.

Cos’è successo in pratica? Che le università hanno bandito pochissimi posti come Rtda (senza prospettive future) e un numero irrisorio delle posizioni più preziose come Rtdb. Il reclutamento è stato di fatto bloccato e nell’università non entra nessuno a parte pochissime eccezioni. Quale squadra di calcio competitiva terrebbe sempre gli stessi giocatori per quattro o più anni di fila? Quale azienda sospenderebbe le assunzioni di nuovo personale per un tempo lungo e indefinito? Senza un’immissione costante di nove forze, l’università inevitabilmente peggiora. In ogni generazione c’è sempre l’inestimabile valore aggiunto costituito dal “Cristiano Ronaldo” o dal “Totti” della ricerca. Non è un danno rinunciarvi? Quanto tutto questo influisce sulla produttività di chi in ogni caso rimane? Come si possono motivare delle persone senza offrire reali prospettive non dico di carriera, ma di uno stipendio ogni mese? Soprattutto, non si stanno perdendo solo i campioni, ma tutta una generazione di onesti calciatori di ogni ruolo.

Sono gli stessi assegnisti e ricercatori che non hanno ancora contratti a tempo indeterminato a far sentire la propria voce, e a mettere in guardia dei danni che arriveranno al paese se non s’inverte la rotta. Per dovere di cronaca, bisogna riconoscere che l’attuale ministro Stefania Giannini ha riconosciuto almeno a parole la necessità di assumere i giovani ricercatori, ma seguiranno i fatti?

Infine, si potrebbero già anticipare delle critiche a questo post. “È facile biasimare, ma è innegabile che l’università così non funzioni/funzionava. Come interverrebbe in modo propositivo chi contestava sui tetti?”. Si potrebbe rispondere che nessuno ha mai negato che le criticità nel sistema universitario c’erano e ci sono, ma se non si sta bene, qual è la soluzione? Andare dal medico che prima esegue una diagnosi e dopo agisce di conseguenza, oppure andare dallo stregone o da uno pseudoscienziato/pseudomedico? Perché è vero che non è gradevole stare male, ma sicuramente è molto ma molto più spiacevole sentirsi peggio.