Opportunamente romanzata, la storia è vera, e inizia e finisce con due Gay Pride, quelli del 1984 e 1985 a Londra: in mezzo, lo sciopero dei minatori contro la decisione della Thatcher di chiudere venti siti, sicuro viatico alla macelleria sociale. Se la Lady di Ferro manteneva fede al suo epiteto, i minatori trovarono il più inaspettato degli alleati: lesbiche e gay londinesi, votati alla causa dal giovane attivista Mark (Ben Schnetzer).
Non era ancora tempo di Ice Bucket Challenge, ma di Money Bucket Challenge sì: Mark requisì i secchi dal vicinato e li distribuì ai suoi amici perché raccogliessero denaro per i minatori al Gay Pride. Direte, che c’azzeccano colletti blu e attivisti Lgbt? Anche i sodali di Mark se lo chiedono, ma il giovanotto taglia corto: “Thatcher, polizia e stampa di destra, abbiamo gli stessi nemici”, e l’unione fa la forza. Dunque, lui, la lesbica Steph, il novellino Joe (George MacKay, gli tocca il personaggio più fittizio), l’intellettuale Mike, il libraio Gethin e il suo brillante compagno Jonathan (Dominic West) raggruppati intorno alla celebre libreria Gay’s the Word formano la Lgsm (Lesbiche e Gay Supportano i Minatori) e iniziano a raccogliere fondi: problema, chi li vuole? Non i sindacati, che appena sentono “LG..” riattaccano il telefono, spaventati dall’aiuto di questi outsider marchiati, di più, stigmatizzati socialmente.
Ma il carismatico Mark non si arrende, e va alla montagna: Dulais Valley, Onllwyn, Galles del Sud, una comunità di minatori in sciopero da mesi e ormai allo stremo. Seppur riluttante, il buon Dai (Paddy Considine) li accoglie, ma in paese infuria la bufera del pregiudizio: la speranza? Cherchez la femme, dalla leader Hefina (Imelada Staunton) alla progressista Sian, fino alla vecchietta curiosa Gwen: basteranno, insieme all’esibizione danzereccia di Jonathan (Shame Shame Shame) al bar di Dulais, a cambiare l’aria omofoba? Risposta prevedibile, ma accolta all’ultima Quinzaine des Realisateurs di Cannes da bordate di applausi: un successo, bissato in patria, che Teodora Film ora spera di replicare sotto l’albero nostrano.
Con quel che gira in sala è più che probabile. Se Full Monty e Billy Elliot sono il vostro pane, fatevi sotto: la storia è esemplare, il racconto edificante, gli attori (dai veterani ai quasi carneadi) una sicurezza, il messaggio arriva forte e chiaro, “bandiera arcobaleno la trionferà!”. Eppure…
Eppure, tutto è troppo perfetto, furbetto, ovvero ridotto ad hoc per rientrare nei parametri, nei gusti del grande pubblico, senza colpo ferire: la sporcizia non c’è, gli spettri più cupi, dall’Aids all’omofobia, sono cotti e mangiati, perché la carne al fuoco è tanta, e oggi – MasterChef insegna – conta soprattutto saper impiattare. Warchus, già in trasferta al cinema con il deludente Inganni pericolosi (’99), lo fa da Dio, donando al film un’estetica e una poetica da Terza Via: Pride piacerebbe a Blair, soddisferebbe il Patto del Nazareno. Perché non è un film militante (non che sia un pregio a priori), ma omologante (non è un pregio), e quell’ “e vissero felici e contenti” – con un’unica eccezione – che promette nei cartelli finali non elude forse il verdetto della Storia: già, che fine avrebbero fatto quelle miniere, e quei minatori? Ma la recensione a Pride sta già tutta in una celeberrima canzone di Celentano e Claudia Mori: se minatori e Lgsm erano due nemici innamorati, soprattutto chi non lavora non fa l’amore. Sciopero o astinenza che sia, qui vale per tutti.
Il Fatto Quotidiano, 11 dicembre 2014