Una vecchia diatriba che ogni tanto vale la pena di riaprire: quella fra pubblicitari e giornalisti. Come è noto i pubblicitari, anzi i copywriter (quelli che scrivono le pubblicità), sono additati da sempre come i peggiori manipolatori e soprattutto i più grandi disinformatori. È una leggenda metropolitana che risale a Vance Packard, giornalista, che vedendo la rapida ascesa della nuova figura del redattore pubblicitario, scrisse un libro intitolato “I persuasori occulti” per gettare in cattiva luce questi nuovi rivali che insidiavano la sua professione.
Fino a quell’epoca infatti – parliamo della fine degli anni ’50 – i redattori pubblicitari erano spesso ancora dei giornalisti che si specializzavano nella stesura di testi per la reclame all’interno dei giornali stessi. Le grandi agenzie stavano appena nascendo e molti giornalisti stavano passando dall’altra parte facendo carriere sfolgoranti come copywriter. Purtroppo quell’invidioso di Packard riuscì nel suo intento e la pessima immagine professionale che appiccicò ai colleghi-rivali resiste ancora oggi nonostante la loro estrema professionalizzazione e un Codice di auto disciplina piuttosto rigido.
Eppure i pubblicitari non possono pubblicare inesattezze, pena il licenziamento o l’allontanamento dai lavori più importanti di un’agenzia. Perché in gioco ci sono investimenti di miliardi oltre all’immagine della Marca-cliente, che va tutelata più di qualsiasi altra cosa. C’è poi la questione dell’informazione veritiera, perché la pubblicità deve prima di tutto informare. Di certo la decadenza della pubblicità è iniziata quando hanno aumentato la componente dell’entertainment, ma l’informazione precisa e corretta resta un obbligo.
Cosa succede invece quando i giornalisti danno una notizia non corretta? Accade ormai ogni giorno. La voglia di sensazionalismo a tutti i costi fa dimenticare di verificare sempre prima di far uscire le notizie, con risultati disastrosi come questo: un coltello da cucina giapponese rinvenuto nell’abitazione di Massimo Carminati, un utensile chiamato “Tako Hiki” usato per affettare il pesce crudo e fare il sashimi, viene scambiato per una katana, la spada dei samurai. Così lo chiamavano gli amici dell’indagato nelle intercettazioni finite sui documenti giudiziari, così di rimando, tutte le redazioni. Nessuna verifica e la solita orgia di copia-incolla ha fatto vittime come in un enorme tamponamento a catena.
Un coltello da cucina per quanto lungo (70 cm.) non è un’arma. Certo potrebbe diventarlo. Ma se uscisse uno svarione come questo in una campagna pubblicitaria la Marca di turno si coprirebbe di ridicolo, l’agenzia perderebbe il contratto oppure pagherebbe una penale e, in alcuni casi, il copywriter o il suo direttore creativo (che con il copy ha lo stesso rapporto del capo redattore con il giornalista) verrebbe licenziato. Avete mai saputo di provvedimenti di questo genere presi in un giornale? Come mai, pur svolgendo entrambi lo stesso lavoro di intermediazione verso il pubblico nell’informare, cioè di controllo rigoroso dell’informazione, soltanto ai giornalisti è permesso di far passare qualsiasi cosa e di non informare correttamente?