Appuntamento il 15, il 16 e il 17 dicembre. La pellicola uscita l’8 marzo del 1998 sugli schermi americani finì il suo ciclo due mesi dopo a metà maggio con soli 27 milioni di dollari incassati nell’intero pianeta
È più memorabile la sequenza del Drugo che vola su Los Angeles come fosse Superman o l’inquadratura successiva con una soggettiva del buco del dito della palla da bowling? L’entrata in scena su un dondolo sospeso della pittrice Julianne Moore appesa nuda intenta a schizzare una tela come Pollock o l’intera sequenza di John Turturro/Jesus in tenuta violacea, unghie laccate e la slinguazzata allusiva alla palla da bowling? L’elenco potrebbe non finire mai, senza trovare il segmento vincitore di un film cult come Il Grande Lebowski (1998), di nuovo in sala per tre giorni (15, 16 e 17 dicembre 2014) con una motivazione ufficiosa da confermare cioè la celebrazione dei 60 anni di Joel Coen – nato nel 1954 – ma non di Ethan che è del ’57.
Impossibile, appunto, capire perché la fortunata meteora Lebowski ritorni in sala, come impossibile è stabilire un baricentro interpretativo di un film uscito l’8 marzo del 1998 sugli schermi americani, 5 milioni e mezzo di dollari nel primo weekend – cifra mediocre -, che finì il suo ciclo due mesi dopo a metà maggio con 27 milioni di dollari incassati nell’intero pianeta – totale di certo non memorabile – e una prima al Sundance Film festival nel gennaio 1998 che, come ricordano le cronache dell’epoca, vide fuggire dalla sala decine di critici schifati dopo l’exploit di Fargo (Oscar per Francis McDormand e per lo script dei Coen).
Eppure proprio mescolando Sartre e il nichilismo, la pigrizia cannaiola di uno sfigato reduce dal Vietnam e il bizzarro pressapochismo pop dell’americano medio di provincia (il bowling), l’intreccio complesso del Grande sonno di Raymond Chandler e la tradizionale narrazione hollywoodiana, che i Coen fanno lievitare il mito del Drugo, pardon the Dude. Un Jeff Bridges in accappatoio, t-shirt, braghette corte e sandalini in plastica da mare che attraversa in trance l’intera pellicola, forte di un banale misunderstanding drammaturgico.
La fortuna de Il Grande Lebowski, cresciuta improvvisamente nel post circuitazione in sala come cult sul web e tra le masse giovanili oggi under 45, sta proprio qui: nella sua struttura infinitamente aperta significa tutto e non significa nulla. Non a caso oltre alle circa dodici feste annuali sparse per gli Usa dove si presentano migliaia di fan travestiti da Jesus e da Walter (John Goodman) come fossimo di fronte ad Elvis o Marylin, è uscita anche un’esegesi antologica schizoide e per tutti i gusti che sulla falsariga del filone universitario dei cultural studies ha fatto il giro del mondo: The Year’s Work in Lebowski Studies (Indiana University Press), in cui i curatori Edward Comentale e Aaron Jaffe, prima che si dispieghino capitoli dove le decine di autori riconoscono nel Drugo qualcosa di caro (Lebowski e Heidegger e Lebowski trotzkista, Lebowski e il Sacro Graal e Lebowski e il White Russian…) spiegano fin da pagina 3 un concetto molto semplice: il film dei Coen “è come una canna, un oggetto che viene definito dalla sua vacuità, un oggetto che viene subito rollato e aperto, che sembra scomparire con il suo utilizzo, progettato per fargli entrare dentro aria che lentamente, delirante, lo consuma”.
Online si sprecano aneddoti sull’ispirazione composita dei Coen per i personaggi principali: Dude si rifà al loro amico Jeff Dowd “il papa delle droghe”, negli anni settanta in prigione con l’accusa di cospirazione contro le proprietà federali infine rispettabile rappresentante di case di produzioni cinematografiche (fu cofinanziatore di Blood Simple ndr); Walter è un doppio del regista John Milius e di Peter Exline, un amico dei fratelli reduce del Vietnam con uno “schifoso tappetino in soggiorno” poi diventata la scena della pipì sul tappeto del Drugo in apertura di film.
Ilarità e riflessione razionale, estro e meticolosità, le 11 settimane di ripresa tra Los Angeles e Malibù sono infine un ricordo giocoso per attori e troupe: “Il giorno della sequenza del sogno quello in cui ballo avevo invitato moglie e figli sul set perché so che a loro piace molto”, ha spiegato Jeff Bridges nel libro The Coen Brothers di Ronald Bergan, tradotto in italiano da Lindau. “Ma i Coen avevano cambiato programma e io pensai: Cosa penseranno i miei bimbi quando mi vedranno sotto le gonne di tutte queste ragazze? Si erano messe d’accordo (le ragazze ndr) per farmi uno scherzo: si erano appiccicate sulle calzemaglie dei finti peli lì sotto, fra le gambe, ma ben visibili quando dimenandosi alzavano le gonne. Mia moglie in realtà lo sapeva, aspettavano tutti di vedere la mia reazione. Per loro è stato davvero divertente, per me non tanto. Ecco perché nel film ho quello strano sorriso sulla faccia”.
Ecco la scena del sogno da Il Grande Lebowski