Nuovo strappo in casa dem, con i "dissidenti" che hanno chiesto di essere sostituiti nelle ultime votazioni. Ora si attende l'assemblea nazionale convocata a Roma per domenica (che ha il chiaro sapore della resa dei conti) e Pippo Civati torna ad avvertire: "Se Renzi continua così, nascerà un nuovo partito"
Tornano a spirare venti gelidi tra la minoranza del Pd e i vertici del partito. In attesa dell’assemblea nazionale convocata a Roma per domenica che ha tutto il sapore del redde rationem, otto deputati della minoranza del Pd in commissione Affari costituzionali della Camera hanno chiesto di essere sostituiti (con marcia indietro e successiva nuova marcia in avanti) per le votazioni degli emendamenti alle riforme, manifestando il proprio dissenso ma non volendo mandare “sotto” il governo e i relatori, come accaduto mercoledì scorso quando il governo è stato battuto sui senatori a vita proprio grazie ai voti degli esponenti della minoranza. “Abbiamo lo stesso la maggioranza”, è stata la reazione ufficiosa dell’esecutivo, cui i fatti hanno dato ragione: i dissidenti Cuperlo, Lattuca, Pollastrini, Bindi, Agostini, Lauricella, D’Attorre e Giorgis non hanno partecipato al voto degli emendamenti all’articolo 3 del ddl Riforme (sui senatori nominati dal presidente della Repubblica), ma la decisione non ha fatto venir meno i numeri alla maggioranza che ha respinto tutte le proposte di modifica. I deputati della minoranza del Pd sono quindi rientrati in Commissione fino al tardo pomeriggio, per poi abbandonare definitivamente in serata.
La giornata – “Per il momento non sono arrivate richieste di sostituzione”, riferiva nel pomeriggio Emanuele Fiano, capogruppo in commissione e relatore alle riforme. L’unico ad essere sostituito – veniva riferito – era stato il deputato di minoranza Giuseppe Lauricella assente per tutto il giorno, cui si era poi aggiunto Enzo Lattuca. Con l’approvazione senza modifiche dell’articolo 3 rimangono nel testo i senatori di nomina presidenziale, nonostante la modifica dell’articolo 2 – su cui il governo è stato battuto – che ha cancellato dal Senato dei 100 la previsione dei 5 senatori nominati. Di fatto i 5 senatori sono ancora previsti dal testo firmato dal ministro delle Riforme Maria Elena Boschi: all’articolo 3, appunto, ma anche all’articolo 39. In serata, con l’ennesimo colpo di scena, i componenti della minoranza sono tornati sulla decisione e hanno chiesto di essere sostituti nelle ultime votazioni, quelle sulle norme transitorie dell’articolo 38 del ddl Boschi che darà vita al nuovo Senato, “per non dover votare contro e mettere di nuovo in difficoltà il governo”.
In serata anche M5s e Lega hanno abbandonato i lavori, seguiti un paio d’ore più tardi anche da Sel: “Vi lasciamo lavorare più tranquilli”, hanno ironizzato. La Commissione ha fatto una breve sosta dei lavori e alla ripresa Roberta Lombardi ha annunciato l’abbandono da parte dei deputati di M5s. Dopo pochi minuti, dopo che il relatore Fiano ha invitato a ritirare gli emendamenti sull’articolo 13 annunciando possibili modifiche in Aula, ha preso la parola Matteo Bragantini della Lega, dichiarando che il Carroccio avrebbe ritirato tutti gli emendamenti lasciando la Commissione. Sia Fiano che l’altro relatore, Francesco Paolo Sisto, hanno espresso rammarico per la decisione.
In serata, quel che rimaneva della Commissione ha poi approvato un emendamento dei relatori che definisce il quorum per eleggere il capo dello Stato, fissato a 3 quinti dei votanti a partire dal nono scrutinio, modificando il testo varato dal Senato che prevedeva i due terzi dei grandi elettori nei primi tre scrutini, i tre quinti dalla quarta votazione e la maggioranza assoluta dal nono. L’emendamento approvato stasera conserva la maggioranza dei due terzi dei grandi elettori nei primi quattro scrutini; dalla quinta votazione si scende ai tre quinti dei grandi elettori e dal nono scrutinio il quorum è fissato ai tre quinti dei votanti. L’emendamento ha avuto il sì di tutti i gruppi rimasti in Commissione: Pd (compresa la minoranza), Ncd, Pi, Sc e Forza Italia.
La crisi Pd – La tensione all’interno dei democratici è durata tutto il pomeriggio: passata la tempesta sull’articolo 3, la minoranza Pd ha minacciato ancora di abbandonare definitivamente i lavori. A pesare sulla decisione la chiusura della maggioranza e del governo a modificare il sindacato preventivo di costituzionalità sulla legge elettorale. La fronda del Partito Democratico chiedeva di cambiare la norma sul controllo preventivo di legittimità da parte della Corte costituzionale, rendendo automatico il controllo, oppure di abbassare il quorum necessario in aula per la richiesta del parere preventivo e anche di far valere la norma anche per le leggi elettorali già in vigore prima della riforma costituzionale, in modo da sottomettere al controllo anche l’Italicum. “Ho sempre detto che mai avrei lasciato la Commissione e che semmai mi dovevano sostituire loro – ha spiegato Rosy Bindi – detto questo se non ci dicono sì all’emendamento che introduce il giudizio preventivo della Corte sulla legge elettorale, allora con sdegno me ne vado”.
Intanto, da Bologna, è stato Pippo Civati ad agitare le acque a poche ore dalla assemblea nazionale: “Se Renzi si presenta con il Jobs Act e con le cose che sta dicendo alle elezioni a marzo, noi non saremo candidati con Renzi”, ha detto il dissidente democratico durante l’iniziativa dell’associazione “E’ Possibile”. “Se Renzi continua così – ha aggiunto – un partito a sinistra del Pd si costituirà sicuramente, non per colpa nostra”. E a chi gli chiedeva cosa si aspetta dall’assemblea nazionale, Civati ha risposto ironico: “E’ un thriller, Renzi decide di notte… Ma io sto sereno come consiglia di fare lui da tempo: io non ho niente da perdere, qualcun altro ci perse palazzo Chigi”.
Mentre si avvicina a grandi passi la partita per il Quirinale, Civati spera in un dialogo con il M5S: “Sul presidente della Repubblica vorrei che stavolta da Grillo ci fosse un segnale chiaro, l’altra volta perdemmo un treno clamoroso. Grillo è sullo sfondo: mi aspettavo un po’ più di coraggio da Pizzarotti, un po’ più di interlocuzione con le altre forze politiche, io ho pochissimi parlamentari, Grillo invece ha ancora una larghissima rappresentanza”.
Per quanto riguarda i fischi e le contestazioni che hanno accolto Massimo D’Alema a Bari nella piazza dello sciopero di Cgil e Uil, Civati ha una sua idea: “C’è molta tensione, molta incomprensione anche tra gli elettori del Pd e c’è molto spaesamento, le persone non si sentono più rappresentate e ci individuano anche come un problema. Io ho avuto un’accoglienza migliore – ha ricordato Civati- ma ciò che è paradossale è che è la prima volta in cui sono andato ad una manifestazione della Cgil per la quale non solo non eravamo con loro ma addirittura eravamo oggetto degli attacchi. Quindi, è chiaro che le persone più note e che magari hanno anche qualche responsabilità in più siano più fischiate delle altre”.