Il “programmino” con le spese delle segreterie pre-Renzi (con tanto di dettagli su viaggi, alberghi, pranzi e quant’altro dei vari componenti) è pronto. L’ordine del giorno da far votare all’Assemblea per stringere all’angolo le minoranze e costringerle a non mettere mai più in difficoltà il governo, Renzi ha finito di scriverlo durante la notte. Aspettava il via definitivo della Commissione Affari Costituzionali di Montecitorio alle riforme. E così il plenum del partito di oggi all’Hotel Parco dei Principi si preannuncia una resa dei conti, con il thrilling dell’incertezza. Il segretario-premier apre alle 11. Con un discorso molto duro, molto chiaro, quasi definitivo. La premessa l’ha fatta ieri, parlando di scuola: “Gennaio e febbraio saranno mesi complicati, ci sono tanti provvedimenti, passaggi istituzionali, appuntamenti legati ai tanti provvedimenti di legge”.  
DUNQUE, BASTA con i “giochetti” parlamentari. Come quello che ha mandato sotto il governo in commissione Affari Costituzionali alla Camera mercoledì. O come il comportamento andato avanti per tutta la giornata di ieri, da parte della minoranza dem: che prima è uscita, poi è rientrata e alla fine si è fatta sostituire da renziani pre-allertati per non votare il testo uscito dal Senato, ma neanche mandare sotto il governo sugli ultimi articoli. Un partito nel partito, che alla fine non rompe, ma non si allinea. E cuoce il leader a fuoco lento. Il quale leader è furioso da giorni. “Cosa dirà di preciso? Vediamo quanto si arrabbia stanotte sentendo i racconti dalla Commissione”, commentano i suoi. Eppure non è così semplice: “Si uniscono due debolezze: dove vanno quelli della minoranza, se escono dal Pd? E Renzi, cosa può fare per disinnescarli?”, commenta un senatore dem.
Perché, in realtà, il logorio quotidiano e la mancanza di controllo del territorio il premier li accusa. Puntando sul fatto che alla fine in Commissione ha avuto il via libera alle riforme, pur con una fatica estrema, e per evitare martiri degli avversari, oggi Renzi – salvo sorprese dell’ultima ora – non dovrebbe annunciare punizioni esemplari. I renziani: “Che fa, li caccia? Non gli conviene. E poi, loro sono divisi”. Civati ieri ha ri-promesso la scissione. “Alla fine resterà solo su questa strada”, ancora gli uomini del presidente. E allora? Allora, potrebbe minacciare intanto la fine della “gestione unitaria” della segreteria. Se le cose annunciate non verranno fatte e votate nei termini previsti. Oltre alla mancata ricandidatura, in caso di voto. Mancata ricandidatura che per i ribelli ormai è certa. Intanto, comunque, si farà votare l’ordine del giorno, forte dei numeri dell’Assemblea. I suoi sono stati precettati in massa: la maggioranza dev’essere schiacciante, come dev’essere chiaro che la minoranza è davvero minoranza. Gli “altri”, i dissidenti, hanno anche valutato se non farsi vedere, marcando con l’assenza il loro dissenso. Alla fine ci saranno, a parte D’Alema. Alcuni voteranno contro, altri non parteciperanno al voto. La scissione è nell’aria, ma non si materializzerà neanche oggi.  
SI ASPETTA IL VOTO per il presidente della Repubblica, prima. E poi, di capire con quale legge si andrà alle elezioni. “Caute”, diceva in latino ieri Roberto Speranza, capogruppo alla Camera, in questi giorni fisso in Commissione. Nel tentativo di tenere la minoranza saldamente nel Pd. Tra i dialoganti c’è anche Pier Luigi Bersani. Spera nel Quirinale. “Con qualche possibilità”, commenta un renzianissimo. Matteo, evidentemente, in questa fase ha tutta la convenienza di farglielo credere, per portare a sé più pezzi di minoranze possibili. Il resto sarà la mozione degli affetti e delle responsabilità, come al solito sul palcoscenico della diretta nazionale: “Non chiedo obbedienza, ma pretendo lealtà. Non per me. Per la cucina della festa dell’Unità, per l’iscritto che prende ferie nella settimana delle elezioni, per la giovane precaria che spera in noi”.
La linea è chiara: i dirigenti della “ditta” non rappresentano più neanche il partito. E ancora: “Chi vuole cambiare segretario può aspettare fino al 2017 con il congresso, chi vuole cambiare governo, fino al 2018. Ma chi vuole cambiare paese non perda un solo giorno e venga a darci una mano”.
da il Fatto Quotidiano del 14 dicembre 2014
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