Settimana nera per le borse mondiali a causa del crollo del prezzo del petrolio che in poco meno di sei mesi è sceso del 40 per cento. Per chi ha vissuto la crisi del 1973-74, quando il prezzo del petrolio si è quadruplicato nel giro di poche settimane, quella attuale sembra quasi incomprensibile.
La riduzione del costo energetico, infatti, dovrebbe tradursi in un aumento del Pil mondiale, dal momento che questo rappresenta una spesa che incide sui costi di produzione e di trasporto di qualsiasi prodotto. Persino la spesa delle famiglie beneficia della riduzione del prezzo del petrolio – negli Stati Uniti è stato calcolato che ai prezzi correnti una famiglia media risparmia 750 dollari l’anno rispetto al 2013, soldi che verranno spesi in altri modi, sostenendo, si spera, la domanda interna.
Nonostante tali considerazioni, questa settimana i mercati azionari sono crollati, in parte perché gli investitori hanno letto nell’ennesima riduzione del prezzo del petrolio la conferma che l’economia mondiale sta entrando in una fase di contrazione profonda, che molti definiscono deflazione. In altre parole si teme che la debolezza dei prezzi rifletta un fenomeno preoccupante, e cioè che la domanda mondiale energetica non sia in grado di assorbirne l’offerta.
Lo squilibrio sarebbe dovuto al rallentamento del tasso di crescita della locomotiva mondiale, la Cina, ed alla spirale deflazionista in cui si trova intrappolata l’Europa. A novembre le importazioni cinesi sono infatti scese a 6,7 per cento su base annuale, mentre per il 2014 queste sono piatte rispetto all’anno prima. In Europa i tassi di crescita sono pericolosamente bassi, intorno all’1 per cento, segno che la ripresa non si intravede all’orizzonte.
C’è poi anche il problema dell’inflazione, la piaga con la quale il mondo ha dovuto convivere per due decadi a seguito della crisi energetica del 1973-74. Oggi giorno però il problema non è l’aumento dei prezzi, ma la riduzione, l’inflazione è troppo bassa. Alcuni indicatori sembrano confermare i peggiori timori deflazionisti, tra cui i bassi rendimenti dei titoli di Stato europei e dei decennali americani.
Unica speranza è l’economia americana che sembra molto più dinamica di quella europea. Ma la domanda che molti si pongono è la seguente: può un’economia come quella statunitense, relativamente chiusa, e cioè che non dipende da importazioni o esportazioni come ad esempio quella cinese, trainare l’economia mondiale in un momento come questo? Più probabile è il contrario che la deflazione mondiale tarpi le ali alla ripresa economica americana, se così fosse allora le previsioni più pessimiste sulla deflazione potrebbero risultare le più accurate.
Certo se la risposta dell’Unione Europea alla crisi del debito sovrano fosse stata diversa, se alla Bce fosse stato concesso di stampare moneta ed usarla per salvare gli Stati deficitari, come hanno fatto gli Stati Uniti ed il Regno Unito, oggi non ci troveremo di fronte allo spettro della deflazione.
Ciò non significa che la politica monetaria espansiva sia la soluzione del problema, il sistema economico e finanziario mondiale va riformato onde evitare crisi simili a quella prodotta dal crollo della Lehman Brothers o a quella del 2010 in Europa. Ma c’è modo e modo di riformare il sistema e certamente quello usato in Europa è stato sbagliato ed oggi, ahimè, non solo gli europei ma il mondo intero ne soffre le conseguenze.