Ambiente & Veleni

Perù, accordi sul clima mentre si devasta l’Amazzonia

We can’t go on living here.
They say the oil will last for 30 or 40 years.
We can’t eat the fish any more, so what will we live on for all those years?
Melita Bela Celis, Perù

Dear president, I am a 10-year-old girl and live in the Parinari district.
I’m concerned because the Marañón is contaminated.
What are we going to drink?
Lettera al presidente del Peru’ Ollanta Humala

Si è concluso il summit sul clima di Lima, Perù fra promesse, frustrazioni e negoziati non sempre facili, in cui i paesi poveri hanno chiesto maggiori investimenti a quelli ricchi.

Ma mentre a Lima hanno dibattuto più o meno animatamente,  a pochi chilometri di distanza si consuma una tragedia ambientale silenziosa e che non fa notiziaAlcuni tratti del Rio delle Amazzoni sono coperti da petrolio fuoriuscito dall’oleodotto della ditta nazionale petrolifera Petroperù. Negli scorsi sei mesi ci sono state almeno cinque perdite di petrolio. Dal 2013 ad oggi il governo ha dichiarato lo stato di emergenza ambientale in ben quattro fiumi: Corrientes, Pastaza, Tigre, e Marañon per inquinamento da petrolio. Tutti e quattro sono confluenti nel Rio delle Amazzoni.

Scommetto che ben pochi sanno della devastazione ambientale petrolifera del Perù. Non è famosa come quella dell’Alberta, dell’Ecuador, o della Nigeria ma il copione è lo stesso di sempre.

Sono circa 40 anni che il Rio delle Amazzoni del Perù viene sfruttato da ditte straniere petrolifere. Quaranta anni di buchi e di inquinamento. I petrolieri hanno disboscato le foreste per costruire strade e piste di atterraggio per i loro aerei e per i loro elicotteri. Hanno tagliato alberi per installare oleodotti ed hanno, come sempre, pompato i rifiuti petroliferi nei fiumi e nella foresta.

L’oleodotto settentrionale della PetroPerù è lungo 850 km ed attraversa la giungla e le Ande prima di arrivare ad una raffineria lungo la costa pacifica. Le autorità dicono che non si sa quanto petrolio è finito nel fiume e nella foresta negli scorsi mesi, e che la colpa è degli atti di sabotaggio dei residenti. I residenti invece puntano il dito alla mancata manutenzione di un oleodotto vecchio 40 anni.

A partire dal 2008 gli investimenti petroliferi in Perù sono aumentati vertiginosamente. Questo dopo che il governo ha deciso di aprire il 75% della foresta tropicale del paese ai petrolieri. E cosi sono arrivati non solo quelli della PetroPerù, ma anche i signori del petrolio di Argentina, Gran Bretagna, Canada e Francia. Un area già devastata dalle trivelle è stata data in pasto ad altri trivellatori, come dice Anders Krogh della Norwegian Rainforest Foundation: “This is an area which was already devastated by the oil companies and what the Peruvian Government has done is to increase the exploration, increase the production, increase the devastation”.

Fra i principali operatori odierni, la Pluspetrol peruviana e Petrochina.

Nel giugno del 2014 il governo ha dimezzato le multe per crimini ambientali, per aprire le porte agli investitori del gas e del petrolio ancora di più ed ha imposto al ministro per l’ambiente di non poter più nominare da solo le zone protette. Come dire, ci penserà il ministro per l’economia!

Ma come si traduce tutto questo nella vita delle persone?

Siamo lungo il fiume Marañón uno dei fiumi emergenza inquinamento. Vive qui la comunità indigena Kukama per i quali l’acqua è molto più che una risorsa alimentare. E’ un elemento fondamentale nella loro cultura, nella loro religione. In mancanza di strade, usano i fiumi come via di trasporto da un villaggio all’altro. Ogni mese da questa piccola comunità viene pompato l’equivalente di circa 3 milioni di dollari di petrolio.

Le prime perdite dall’oleodotto Petroperù iniziano il 30 giugno 2014 presso il villaggio di Cuninico dove non usano idrocarburi e dove non sapevano neanche cosa fosse il petrolio. Fra le attività principali del villaggio, la pesca.  Assieme alla coltre nera lungo il fiume la solita litania di disturbi ai residenti: mal di testa, sangue dal naso, nausea, e dolori addominali. Le mamme dicono che è colpa del petrolio nell’acqua che bevono e nel pescato che mangiano.  Si sono ammalati quasi tutti nel villaggio.

Alfonso López Tejada rappresenta circa 60 villaggi inquinati e ricorda non solo che l’oleodotto è stato trascurato per decenni, ma anche che viene usato sebbene sia ormai sottodimensionato in relazione al petrolio che trasporta.

Vista la gravità della situazione circa 500 residenti decidono di accamparsi per due settimane nella città più grande dell’Amazzonia, a Iquitos, a cento chilometri dai loro villaggi. Sono arrivati qui a piedi e con le barche a protestare il petrolio nelle loro vite che gli ha anche tolto l’acqua da bere e il cibo, chiedendo maggiore accesso a cure mediche.

Il loro portavoce? Monsignor Miguel Olaortuo che dice: “We cannot remain impassive in the face of human suffering. We must stand in solidarity with our brothers and sisters. This is not a matter of faith, but of human solidarity and social responsibility.”

Ed ecco il governo che promette di eseguire test sull’ acqua e di distribuire purificatori e depuratori. Quanto basta per rimandare tutti a casa.

Il 16 novembre un’altra perdita di petrolio a soli due chilometri di distanza. Due ragazzi vanno a vedere, ed invece del solito via vai di pesci nella loro laguna preferita scoprono pesci morti, puzza di petrolio e foglie nere. Più avanti decine e decine di altre caracasse di pesci morti o morenti.

Intanto i test mostrano che le acque “potabili” di diciassette comunità Kukama tanto potabili non sono. Hanno trovato sia nell’acqua, che nel terreno, sedimenti metalli pesanti e residui di idrocarburi. Tutti i campioni di fiumi, laghi o pozzi artesiani da cui i residenti prendono l’acqua per bere sono stati considerati non sicuri ed inquinati con valori circa cento volte i limiti legali.

Il Perù sente la responsabilità del successo degli incontri sul clima, e anzi proprio a questo summit di dicembre, il paese ha annunciato che arriveranno al 60% elettricità dalle rinnovabili entro il 2025.

Ma allo stesso tempo il governo ha deciso di perseguire la rapida espansione dell’industria degli idrocarburi in Amazzonia. I due terzi delle emissioni di anidride carbonica dal Perù derivano da operazioni di disboscamento illegale e/o mirato all’estrazione di petrolio, secondo il Carnegie Institute for Science.

Soprattutto nonostante tutti questi “stati di emergenza” non hanno fatto granché per aiutare le comunità impattate dal petrolio.  Non è un controsenso? Come dicono i residenti, cosa berrà chi vive li?

Qui le immagini della comunità Kukama.