A parte le valutazioni finanziarie da bolla speculativa, c’è una buona ragione per occuparsi di Uber? A ben vedere, più di una: la ex start up californiana che nelle ultime settimane ha raccolto capitali per 1,2 miliardi di dollari è al centro di molte critiche in patria e all’estero su questioni che vanno dalla qualità del servizio, alla sicurezza dei passeggeri, dalla violazione della privacy dei clienti all’iniqua ripartizione dei compensi, a numerose violazioni di legge in parecchi dei Paesi in cui è attiva. Tutte cose che non hanno niente a che vedere con le proteste della lobby dei taxisti e molto invece con la “cultura imprenditoriale” – se così la si può definire – di Uber stessa che, al netto della tecnologia, sembra uscita dal mondo analogico del Monopoli e da una lettura al contrario di Orwell. Per rendersene conto basta considerare le dichiarazioni del vicepresidente di Uber, Emil Michael, che a una cena ha detto di voler mettere in piedi un team dedicato al dossieraggio dei giornalisti che criticano Uber. O ancora la vita e le opere di Josh Mohrer, direttore generale della compagnia a New York, che ha spiato in tempo reale gli spostamenti di una giornalista di Buzzfeed sulle vetture Uber. E i due dirigenti sono ancora al loro posto.
Ma non basta. Ad alimentare molti dubbi è proprio uno dei punti di forza più pubblicizzati dalla società californiana, cioè la possibilità di usufruire dello stesso servizio in tutte le città in cui Uber è presente: stesso smartphone, stessa app, stesso meccanismo, un po’ come il “Big Mac” uguale a se stesso in ogni McDonald’s del mondo. La differenza è però che nel caso di Uber si stanno moltiplicando le denunce dei clienti per aggressioni, molestie, rapine, stupri. L’ultimo caso è di qualche giorno fa. E’ successo in India, dove una 26enne è stata stuprata dall’autisa, tal Shiv Kumar Yadav, che aveva già precedenti per violenza sessuale (dal 2009 ha avuto a che fare con la giustizia per ben 5 volte). A fronte di questi casi che tendono a crescere al crescere della diffusione planetaria di Uber, le rassicurazioni offerte sulle modalità di selezione dei conducenti appaiono del tutto inadeguate.
Osservazione che vale anche per l’Italia dove da pochi mesi è stato lanciato il servizio denominato UberPop fornito da autisti non professionisti che utilizzano le loro auto private per dare “passaggi” a pagamento. Al di là delle violazioni delle normative che regolano il trasporto pubblico (e che diversi comuni a partire da Torino hanno deciso di far rispettare a suon di multe e sospensioni di patente agli autisti) resta il problema di chi tutela il consumatore che utilizza UberPop, che è come accettare un passaggio da uno sconosciuto. “Le garanzie offerte sono poche – dice Paolo Martinello, presidente di Altroconsumo – e chiedere che l’auto impiegata non abbia più di dieci anni e sia in buono stato o che il conducente abbia la fedina penale pulita oggettivamente non basta. Servono controlli più stringenti e Uber dovrebbe garantire i consumatori sotto ogni profilo risarcitorio”.
Intanto Uber lucra una commissione su ogni corsa, o meglio, incassa il totale e poi ne retrocede una parte all’autista. E di qui un’altra grana è scoppiata a New York, dove Uber è accusata di fare la cresta anche sulle mance. Può far sorridere, ma un cliente ha fatto causa alla società e Uber rischia di dover pagare una montagna di soldi. Starbucks per una causa analoga ha dovuto restituire 100 milioni di dollari ai suoi baristi, mentre il noto chef Mario Batali e il suo collega Joe Bastianich, giurato di Masterchef Italia, hanno patteggiato la restituzione di 5,25 milioni di dollari ai loro dipendenti newyorchesi.
Ma la questione mance apre un fronte più ampio, che ha a che fare con la questione delle tasse: chi utilizza Uber può richiedere una fattura o una ricevuta fiscale per poter documentare la spesa per un eventuale rimborso o per detrarla dall’imposta sui redditi? E’ abbastanza evidente che gli autisti di UberPop non sono titolati a rilasciare ricevute perché non sono dei professionisti e tecnicamente ciò che fanno è prestare il loro automezzo e il loro tempo a Uber a fronte di un rimborso spese. Dunque dovrebbe essere la società a rilasciare una ricevuta fiscalmente valida o una fattura per il servizio prestato al cliente. Il punto è: lo fa? Uber Italia come segno di trasparenza non ha risposto né a questa né alle altre domande poste dal fattoquotidiano.it, ma il problema del se e dove paga le tasse resta, così come sono ancora da chiarire diverse cose che riguardano l’app per gli smartphone Android. Nei giorni scorsi in rete si sono moltiplicati gli articoli che denunciano come quest’applicazione effettuerebbe accessi non autorizzati alle email, agli sms e al registro chiamate dei clienti oltre che a un vasto altro insieme di servizi Android. Uber ha replicato dichiarando che l’app accede a determinati servizi per offrire un servizio migliore ai suoi clienti e vari articoli in rete sostengono che l’accesso a dati come il registro chiamate, gli sms e l’email non sarebbe dimostrato. O meglio a non essere al momento dimostrato sarebbe il trasferimento di questi dati dallo smartphone ai server di Uber. Basta per tranquillizzarci?