“Un clima da pogrom nei confronti della classe politica”. Sul Corriere della Sera, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ricorda la lettera inviata alla Camera da Sergio Moroni: un testo drammatico in cui il deputato del Psi spiegava le ragioni per cui, il 2 settembre 1992, si sarebbe tolto la vita dopo il suo coinvolgimento nell’inchiesta Mani pulite della Procura della Repubblica di Milano. Napolitano, all’epoca presidente dell’assemblea di Montecitorio, ricorda la lettura in aula di quella lettera come “il momento umanamente più angoscioso” della sua carica. Quello che però non ricorda è che in quella missiva dove rivendicava di non avere preso un soldo per sé, il deputato (padre di Chiara, che sarebbe diventata a sua volta parlamentare) ammetteva in pieno l’esistenza del sistema delle tangenti che i magistrati stavano svelando dopo l’arresto di Mario Chiesa a Milano, il 17 febbraio di quell’anno: “Ho commesso un errore accettando il sistema”, scriveva Moroni in quel pubblico congedo, “ritenendo che ricevere contributi e sostegni per il partito si giustificasse in un contesto dove questo era prassi comune”. La lettera di Napolitano al Corriere è la risposta al commento domenicale di Ernesto Galli della Loggia, “All’origine dell’antipolitica”, in cui il politologo lamentava come le parole di Moroni fossero “cadute nel vuoto”. Riferendosi, anche lui, al grido di dolore del parlamentare per “essere accomunato nella definizione di ladro oggi così diffusa”, ma guardandosi bene dal citare i passaggi sull’esistenza di un sistema che con la “origine dell’antipolitica” ha molto a che fare.

Il 2 settembre 1992 Sergio Moroni comprò un fucile in armeria, scese nella cantina della sua abitazione a Brescia e si sparò. Su di lui pendeva una richiesta di autorizzazione a procedere della Procura di Milano, datata 16 luglio 1992, per corruzione e violazione del finanziamento pubblico ai partiti. La richiesta era firmata dal pool Mani pulite al completo: Di Pietro, Davigo, Colombo, Borrelli. Diversi imprenditori e politici lombardi interrogati dai pm avevano indicato in Moroni, segretario regionale del Garofano guidato da Bettino Craxi, un protagonista del sistema delle tangenti in Lombardia, insieme al suo omologo Dc Gianstefano Frigerio, poi condannato in via definitiva, riemerso alla Camera nel 2001 grazie alla candidatura blindata in Forza Italia e finito di nuovo in carcere per le tangenti Expo, per le quali ha patteggiato tre anni e quattro mesi.

Quello di Moroni non fu il primo “suicidio di Tangentopoli“, dato che prima di lui si erano tolti la vita alcuni amministratori locali coinvolti a vario titolo nelle inchieste, fra i quali il segretario del Psi di Lodi Renato Amorese, il 17 giugno. Fu, però, la prima volta di un politico nazionale, di un parlamentare, che per di più aveva scelto di sollevare il tema nel modo più tragico: “Vengo coinvolto nel cosiddetto scandalo ‘tangenti'”, scrive Moroni a Napolitano, “accomunato nella definizione di “ladro” oggi così diffusa. Non lo accetto, nella serena coscienza di non aver mai personalmente approfittato di una lira. Ma quando la parola è flebile, non resta che il gesto“.

Vengo coinvolto nel cosiddetto scandalo ‘tangenti’ – scrive Moroni a Napolitano – accomunato nella definizione di “ladro” oggi così diffusa. Non lo accetto

Ma quali erano le accuse a Moroni? Nella richiesta di autorizzazione, tra gli elementi contro di lui i pm elencano le dichiarazioni di Luigi Martinelli, democristiano, consigliere regionale lombardo e presidente della Commissione ambiente. Che ai magistrati racconta di una tangente da un miliardo e 800 milioni di lire, le cui prime tranche erano già state consegnate, per la costruzione della discarica di Pontirolo, in provincia di Bergamo. La megatangente, secondo Martinelli, sarebbe stata spartita 50-50 tra Moroni e Frigerio per conto dei rispettivi partiti. Il deputato Psi, secondo gli inquirenti, è “l’autore dell’accordo di spartizione”. Dalle carte emerge anche un contrasto tra i due segretari regionali. Moroni non avrebbe spartito nulla – sempre in termini di denaro da consegnare al partito – in qualità di assessore regionale ai Trasporti, ma il secondo avrebbe fatto lo stesso con il denaro “proveniente dal settore dell’Edilizia economica popolare”. Così le discariche – non solo Pontirolo- sarebbero diventate il terreno di compensazione dei “crediti”. Moroni, infatti, era accusato di corruzione anche per l’acquisto di materiale rotabile per le Ferrovie Nord Milano, quelle che servono i pendolari. La sentenza di primo grado, emessa dal Tribunale di Milano nel 1994 a carico dei coindagati, poi confermata in appello e in Cassazione, dichiarerà pienamente provati i fatti. E cioè che il deputato Psi aveva ricevuto materialmente circa 200 milioni di lire in una cartellina da ufficio, avvolta in un giornale. Del resto lo stesso Moroni non ha mai negato di aver percepito denaro: “Mi rendo conto che spesso non è facile la distinzione tra quanti hanno accettato di adeguarsi a procedure legalmente scorrette in una logica di partito e quanti invece ne hanno fatto strumento di interessi personali”, scrive ancora nella lettera d’addio.

Non è facile la distinzione tra quanti hanno accettato di adeguarsi a procedure legalmente scorrette in una logica di partito e quanti invece ne hanno fatto strumento di interessi personali

Nel corso delle indagini, l’assessore regionale socialista Claudio Bonfanti raccontò addirittura di una diatriba interna al Psi sulla ripartizione correntizia delle tangenti. Ai magistrati che gli chiedevano conto del sistema discariche di rifiuti in Lombardia, Bonfanti descrisse una normativa fatta in modo da potere concedere i permessi a chiunque pagasse, anche senza i requisiti necessari. Nell’autunno del 1991, mise a verbale Bonfanti, “l’onorevole Balzamo (storico segretario amministrativo nazionale del Psi di Craxi, ndr) mi chiamò e mi redarguì per il fatto che stavo permettendo il finanziamento del gruppo martelliano”. Guidato appunto “da Moroni”. E quest’ultimo, continuava Bonfanti, “mi confermò che si era occupato e si stava occupando di ricevere contribuzioni dagli imprenditori”.

Le discariche di rifiuti, le case popolari, i treni per i pendolari. Temi sensibili che hanno a che fare con la vita di tutti i giorni e con la salute delle persone. Questioni che oggi, un quarto di secolo dopo quelle confessioni, esplodono. Trattati dalla politica dell’epoca come un fiume dal quale pompare una massa spaventosa di denaro pubblico, dato che gli esborsi delle mazzette sostenuti dagli imprenditori venivano scaricati sui costi delle opere e delle forniture pubbliche.

Fu soltanto il “clima da pogrom” a uccidere Sergio Moroni, come ricorda oggi il presidente della Repubblica? O fu anche quel sistema di cui il deputato socialista faceva parte? Moroni “aveva molto sofferto per il cordone sanitario che gli era stato fatto attorno”, ricorderà anni più tardi Loris Zaffra, altro politico socialista pesantemente coinvolto in Tangentopoli, che ebbe occasione di parlare con lui di quelle vicende giudiziarie. “Tangentopoli ha messo a nudo, oltre al giro delle tangenti, la slealtà dei rapporti politici. Sei stato arrestato? Peccato per te, entri nel cesto delle mele marce. Gli altri, che con te hanno diviso errori e responsabilità, si girano dall’altra parte. Inaccettabile”. Ed ecco la lettura che diede la moglie di Moroni, Sandra, in un’intervista del 1998 al settimanale Diario: “In effetti mio marito era nauseato dalla piega che aveva preso la vita politica ancor prima dell’inizio di Mani PulitePerò si è innescato un meccanismo di violenza in cui i magistrati potevano stare ai limiti della legalità perché avevano la stampa e l’opinione pubblica dalla loro parte. La rivoluzione rispetto a una certa politica”, concludeva la signora Moroni, “poteva essere giusta ma, invece che per via giudiziaria, doveva essere fatta in Parlamento. Cosa che non è successa”.

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